Premessa
Non abbiamo vissuto come i bruti.
Non ci siamo richiusi nel nostro
egoismo.
La fame, la sporcizia, il freddo, le
malattie,
la disperata nostalgia delle nostre
mamme e dei nostri figli,
il cupo dolore per
l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti.
Non abbiamo dimenticato mai di essere
uomini civili,
con un passato e un avvenire.
Giovanni Guareschi
Anche Giovannino Guareschi, l’indimenticabile creatore di personaggi
come Don Camillo e Peppone, fu uno dei 716.000 italiani deportati dopo l’8
settembre 1943 nei lager tedeschi. Le condizioni dei militari italiani nei
lager furono eccezionalmente crudeli: privati della qualifica di “prigionieri
di guerra” in quanto considerati dai nazisti come dei traditori, e classificati
“Internati Militari Italiani (IMI)”, non potevano beneficiare della protezione
della Convenzione di Ginevra né essere assistiti dalla Croce Rossa: gli unici
generi di conforto erano i pacchi inviati dalle famiglie.
Il
regime nazista offrì la liberazione dai campi di prigionia e il rinvio in Italia
a quei prigionieri italiani che si fossero arruolati nelle forze armate della
Repubblica Sociale. La propaganda degli “arruolatori”, ufficiali italiani inviati
dal Comando dell’Esercito repubblichino, fu pressante. Una minima quota di
prigionieri aderì alla proposta (per poi in molti casi unirsi alle formazioni
partigiane dopo il rientro in Italia1), ripetuta e incessante dal momento della cattura fino ai
primi mesi del 1944, quando gli Imi avevano già fatto l’esperienza del
durissimo inverno 1943 nei lager.
Il
fatto che la stragrande maggioranza degli Imi, soldati e ufficiali rifiutò di
aderire alla Rsi costituì un disconoscimento di massa di altissimo valore
civile e politico. Rimanendo nei campi, restava l’amara consapevolezza che con
una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze morali e
fisiche, il prevedibile rischio di morire (circa 40.000- 50.000 internati
pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della
denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li
costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condus
sero
a morte). Quella degli Imi che non cedettero alla propaganda fascista fu una
Resistenza senza armi, ma altrettanto importante, dal punto di vista simbolico,
di quella armata che agiva in Italia. Sulla situazione degli I.M.I. così si era
espresso, fin dal 27 marzo 1944, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta
Italia:
«Il C.L.N.A.I., a notizia del selvaggio trattamento al quale
vengono sottoposti, da parte degli aguzzini nazisti, gli ufficiali ed i
soldati italiani internati nei campi di concentramento in Polonia che si sono
rifiutati di prestare servizio nelle organizzazioni militari e civili tedesche;
esprime a questi coraggiosi - che pur brutalizzati e seviziati in tutti i modi,
in una suprema affermazione di dignità e di fierezza, hanno voluto negare ogni
collaborazione e prestazione al nemico - la sua solidarietà e l’ammirazione
dei liberi e degli onesti di tutto il mondo; denuncia i responsabili dei
delitti e delle atrocità affinché siano, a suo tempo, giudicati e giustiziati
come criminali di guerra».
La Repubblica Italiana, dopo anni di colpevole oblio, ha conferito
il 19 novembre 1997 la Medaglia d’Oro al Valor Militare all’ “Internato Ignoto”
con la seguente motivazione:
«Militare fatto prigioniero o civile
perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di
concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni
sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai,
non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele
all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili
sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente
determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così
la sua Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione
libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui
valore ancora oggi è esempio di redenzione per l’Italia».
Inoltre nel 2000 è stato riconosciuto il 27 gennaio (data
dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz) come il “Giorno della Memoria” in
ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei
deportati militari e politici italiani nei campi nazisti,
«in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un
tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché
simili eventi non possano mai più accadere».
Infine, con Legge n. 296/2006 è stata concessa una medaglia
d’onore ai cittadini italiani (militari e civili) che nell’ultimo conflitto
mondiale furono deportati e internati nei lager nazisti.
Giuseppe
Giacobinelli partecipò a questo movimento di Resistenza ai nazifascisti dal
giorno del suo arresto, il 16 settembre 1943, fino alla fine della sua
prigionia. Il suo rifiuto fu soprattutto motivato dalla fedeltà al giuramento
che aveva fatto al Re prima da soldato e poi da ufficiale, ma determinante fu
anche il disprezzo verso il Fascismo che egli definì
«Un sistema disonesto e disonorante per una
nazione da un passato cristallino e trasparente. 28 ottobre2 lutto nazionale per la nostra cara Patria oggi
in balia di tutti e con la sua gente migliore in mano dell’alleato di ieri e
che oggi ci tratta in modo indegno[...]3».
Le
tappe della prigionia
All’inizio del quarto quaderno del suo Diario, gelosamente
custodito e fortunosamente conservato attraverso tutti i trasferimenti,
salvato con astuzia dalle rischiose perquisizioni, Giuseppe Giacobinelli
riassume le tappe della sua prigionia in uno schema. Riportiamo fedelmente
quanto scritto da lui stesso:
Le tappe del Calvario
9 sett. 943: Armistizio
11 sett.: Faccio rompere le righe ai miei Alpini
12 sett. 943: Pongo in libertà gli Ufficiali
13 - 14 sett.: arrivano truppe tedesche
16 sett. Belluno - S. Candido
17 sett. S. Candido - Lienz
18 - 22 sett. 943. Lienz - campo di Kustrin
27 - 29 sett. 943. Kustrin - campo di Deblin
26 nov. 943. Deblin - Deblin Triangolo
1944
17 -20 gennaio. Deblin - Tschestochau
9 - agosto. Tschestochau - Norimberga.
1945
29 genn. - 1° febb. Norimberga - Lichterfeld sud (Berlino)
14 - 19 febb. Lichterfeld - Altengrabow
4 maggio. Liberazione
8 - 9 maggio. Altengrabow - Belzig
29 maggio. Belzig - Strauberg
27 luglio. Strausberg - Bucow
L’elenco
si ferma qui, ma da Buckow, quartiere meridionale di Berlino, riparte
solamente un mese dopo, il 28 di agosto, con un viaggio, ça va sans dire,
su carri bestiame. Arriva a Trento il 4 settembre, dove trova ad attenderlo un
Comitato di accoglienza di Belluno. Qui riabbraccerà finalmente la sua adorata
Tucci.
Perché
segreti
Ci siamo chiesti perché il Generale avesse tenuto segreti i
suoi diari senza pubblicarli. Aveva salvato quei quaderni da innumerevoli e
rischiose perquisizioni, li aveva conservati con grande cura durante i
trasferimenti da un lager all’altro. Perché non pubblicarne il contenuto? Le
tre ragioni principali si possono dedurre dai diari stessi e dalle testimonianze
di persone a lui vicine che hanno conservato gelosamente i manoscritti dopo la
sua morte. Non lo ha fatto nemmeno in estratto, al ritorno dalla prigionia, nonostante
avesse espresso tale proposito già all’inizio del primo quaderno. Date le
condizioni del contesto politico-sociale del secondo dopoguerra, ritenne sicuramente
di attendere un clima più disteso e meno conflittuale.
La
vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 lo
aveva profondamente deluso e amareggiato. Nel suo diario la difesa della
monarchia e l’esaltazione del ruolo storico di Casa Savoia sono ovunque
presenti: non dimentica mai i compleanni del Re e della Regina, condivide la
lettura della Storia cara ai monarchi e conferma ad ogni passo la fedeltà senza
riserve al suo giuramento da soldato e poi da ufficiale del Regio Esercito. La
sua concezione politica ispirata ad liberalismo conservatore, la sua formazione
nazionalista di stampo risorgimentale, la sua cultura letteraria influenzata
dal romanticismo ottocentesco non gli concedono strumenti per analisi critiche
sull’operato dei Savoia. Un altro elemento, forse quello più determinante per
un uomo della sua statura morale, fu la consapevolezza che la sua vicenda di
internato, le umiliazioni subite, il freddo, la fame, la mancanza di igiene non
erano nulla al confronto con quanto aveva vissuto la maggioranza delle altre
centinaia di migliaia di uomini che, come lui, erano stati caricati sui carri
bestiame all’indomani dell’8 settembre ‘43. Si era reso conto fin dal rimpatrio
che le sue sofferenze non erano nemmeno paragonabili, in molti casi, a quelle
subite dai suoi stessi Alpini. Si era sentito un privilegiato davanti alle
larve umane che scendevano dai treni provenienti dal nord.
Il
terzo elemento che lo frenò nella divulgazione anche tardiva dei diari fu,
presumibilmente, l’imbarazzo per le espressioni di odio nei confronti dei
Tedeschi (ma gli scritti non esimono nemmeno i Francesi). Espressioni che
stridevano fortemente con il clima politico e culturale del secondo dopoguerra,
teso a costruire una pace solida e duratura tra i paesi europei e ad evitare
gli errori seguiti al primo conflitto mondiale.
La
costruzione del Mercato Comune e le tappe verso un Unione europea non erano
compatibili con alcune frasi contenute nei diari e soprattutto con il titolo
ch’egli avrebbe voluto in caso di pubblicazione (Perché dobbiamo odiare i
Tedeschi). Giuseppe stesso, d’altra parte, per il suo carattere aperto e
gioviale, per le sue caratteristiche di uomo di mondo, che aveva viaggiato in
gioventù per tutta Europa, aveva superato con il passare del tempo l’avversione
reattiva nei confronti dei suoi ex-carcerieri. Agli inizi degli anni ‘70 fu
parte attiva, con gli Alpini gavardesi, nel gemellaggio tra Gavardo e Weiden -
Löwenich, quartieri orientali della città tedesca di Colonia. Dopo la sua morte
i quattro quaderni segreti del Generale Giacobinelli hanno rischiato di andare
perduti, data la numerosità e la eterogeneità degli eredi. E’ stata la
determinazione delle nipoti Rina e Cecilia e della pronipote Clara a salvarli
fino alla pubblicazione.
Perché
pubblicarli ora?
A settanta anni di distanza questi scritti costituiscono un
documento di rilievo storico per vari motivi. I diari di prigionia di ufficiali
superiori finora pubblicati non sono molti.4 Giuseppe scrive quotidianamente, senza mancare un giorno,
anche dopo la fine della prigionia, dal maggio al settembre ‘45 sino al giorno
del rimpatrio. I diari non sono stati revisionati, né riveduti dall’autore che
li ha conservati così come sono stati scritti, a caldo, nel corso
dell’esperienza di internamento.
Se
fossero stati pubblicati in precedenza il rischio di una lettura mediata da filtri ideologici sarebbe stata maggiore di quella attuale. Oggi ci è
consentito leggere queste pagine con la “giusta distanza” che permette
di guardare alla vicenda umana di Giuseppe Giacobinelli senza pregiudizi e
ascoltare il racconto di una esperienza che ha segnato la sua vita e quella
degli altri ottocentomila internati e che ha generato, in seguito, scelte
individuali e collettive determinanti per la nascita e l’evoluzione della
democrazia in Italia.5
Chi
era Giuseppe Giacobinelli
«Tracciare un profilo dello scomparso è
impresa ardua date le molteplici attività da lui espletate con entusiasmo e
dinamismo suscitando intorno a sé stima e naturale simpatia».
Così scriveva il corrispondente del Giornale di Brescia il
giorno dei suoi funerali.6
El
colonel come molti suoi concittadini continuavano
a chiamarlo anche dopo la promozione a Generale della Riserva, era dotato di
una forte personalità che lo faceva emergere in qualsiasi ambiente si
muovesse.
Ragazzo
cresciuto in fretta agli albori del Secolo breve, primogenito dei cinque
figli di Terzio, fin da bambino mostrò un carattere avventuroso e intraprendente.
Racconta la nipote Mariangela:
«Era un bambino delle Elementari... un
pomeriggio, prima dell’apertura della scuola, lui e un suo amico salirono sul
campanile della Chiesa per prendere i piccoli passerotti da un nido; dovevano
rientrare in classe e non sapendo dove mettere i passerotti, li misero nel
giubbetto. Ad un tratto nel silenzio della classe si sentirono i pigolii degli
uccellini, il maestro fissò tutti i ragazzi perché non capiva, poi i colpevoli
furono sgridati e il fatto servì da lezione ‘si devono rispettare gli
animali’...».
Dopo la
licenza elementare aveva iniziato a lavorare come commesso in un negozio, ma il
piccolo e angusto mondo del paese natio gli andava molto stretto. Scrive nel
suo diario: “...pensavo alla mia giovinezza tanto avventurosa, ero stato
proprio uno scavezzacollo!” Giuseppe se n’era andato da casa in giovanissima
età (tra i quindici e i diciassette anni secondo le varie fonti orali) e si era
imbarcato a Napoli come mozzo sulle navi che facevano rotta verso
l’Inghilterra. Le esili tracce documentarie lo indicano residente a Londra fino
al 1911, l’anno successivo a Zurigo. Racconta ancora Mariangela:
«...di
ritorno da uno dei suoi viaggi portò un paio di pattini a rotelle, novità
assoluta allora. Di corsa partì dal Bostone con gli schettini ai piedi; era
giorno di mercato, la gente spaventata e meravigliata si chiedeva cosa avesse
ai piedi quel ragazzo per correre così velocemente!»
Comincia, nel settembre del 1912 la sua carriera militare,
caratterizzata, fin dall’inizio, da un forte spirito d’iniziativa e da una
dedizione senza riserve. Con la sola licenza elementare, senza aver frequentato
l’Accademia Militare, in soli tredici anni scala la gerarchia da soldato
semplice a capitano. È Colonnello Comandante del 7° Reggimento degli Alpini
quando la sua carriera è interrotta dall’arresto e dalla successiva prigionia
in Polonia e in Germania.
Fedele
al giuramento fatto al Re, non accetta di giurare fedeltà alla neonata
Repubblica: è collocato a riposo nell’aprile del 1946.
Anita
Ho sempre qui presente la sera della separazione con mia
moglie. L’ho vista e la vedo ancora disperata dal dolore; il suo viso era
irriconoscibile; durante le lunghissime giornate di viaggio in carro bestiame
ho sempre pensato a quel povero e amato viso profondamente segnato dalla pena e
dal dolore e che ancora una volta mi testimoniava tutto l’amore e la dedizione
assoluta che mi ha sempre portato. Sei eroica mia cara Anita e io non sono
degno di te.
La figura centrale della sua vita fu sicuramente Anita
Vergnano, la moglie. L’aveva conosciuta a Torino e, dicono alcune fonti,
avvicinata per gioco. Dimenticò presto il motivo dell’approccio, perché si
innamorò perdutamente, ricambiato, di quella donnina minuta, ma determinata, vivace
e sportiva. Oltre alla predilezione per le sigarette di buona qualità, condividevano
la passione per lo sport e per la montagna. Frequentavano spesso le piste
sciistiche d’inverno e i sentieri impervi durante l’estate. Amavano la vita
brillante delle feste danzanti e delle tavole imbandite.
Non
ebbero figli ed è anche per questo che Giuseppe mantenne un rapporto di grande
affetto con i numerosi nipoti.
Il
dopoguerra
Dopo il suo congedo egli fu sostenitore o animatore in
molteplici realtà associative e istituzionali a Gavardo, dal Consiglio
Comunale, alla presidenza della Scuola Materna, al Gruppo della Montagna, al
Tiro a segno. A quest’ultima attività sportiva dedicò molte energie. La rinascita
della Sezione locale nel si deve in gran parte al suo appassionato e generoso
sostegno, anche finanziario. Grazie al suo appoggio un giovanissimo tiratore
gavardese, Carlo Vezzoni, dopo aver vinto sei volte quello italiano, partecipò
al Campionato europeo di Budapest ed infine alle Olimpiadi di Roma del 1960.
Firmava con lo pseudonimo L’Alpino Giaco le frequenti missive, lettere,
biglietti intestati che inviava agli Alpini attraverso il suo più stretto
collaboratore, Isidoro Codenotti, reduce da Nikolajewka, storico Capogruppo di
Gavardo. L’Associazione degli Alpini sia nel Gruppo di Gavardo, sia nella
Sezione Montesuello, era sempre al centro delle sue attenzioni. Alla sua
generosità si deve, per esempio, la costruzione della Chiesetta degli Alpini
sul Monte Tesio, ma non mancava mai di dare il suo prodigo contributo ad ogni
iniziativa benefica e di solidarietà.7 L’amore
per la musica, che aveva condiviso con Anita, era continuata anche dopo la sua
scomparsa. Alla Fanfara Alpina, che egli seguì con grande
entusiasmo, dedicò tempo e risorse, incoraggiando soprattutto il talento dei
giovani musicisti. L’ultimo appello: 7.30 del mattino, il 20 maggio 1973.
Un
austero masso di granito del “suo” Adamello lo ricorda nella piazzetta davanti
alla Scuola dell’Infanzia “G. Quarena” di Gavardo.
m. a.
Nota a margine
Mi sono avvicinata a questi scritti, confesso, con un
atteggiamento fortemente pregiudiziale. La figura del Generale, nella mia
memoria, è sempre apparsa retorica e marcatamente militarista. Nonostante in
alcuni passaggi del diario queste mie opinioni siano state confermate, ho
potuto constatare, pagina dopo pagina, la sua grandezza d’animo e la sua
sconfinata generosità.
L’aspetto che più colpisce è il rispetto profondo per le donne
che emerge soprattutto, nella parte finale del suo racconto, nella descrizione
dello sfacelo morale dopo la fine della prigionia. Il rapporto con la sua
“Tucci”, la moglie Anita, che appare in quasi tutte le pagine dei quaderni,
d’altra parte, è talmente intenso da farne la figura ispiratrice, la fonte di
speranza, il movente per superare le sofferenze e le difficoltà. La ragione per
tornare, ad ogni costo. Lei, donna emancipata, autonoma, intraprendente, trova
costantemente le risorse per inviare pacchi di viveri, abbigliamento e
l’immancabile tabacco nei vari lager dove Giuseppe è prigioniero. Per farlo,
mobilita tutta la famiglia e i molti conoscenti: a Gavardo, a Sanremo, a
Belluno e a Torino.
Nei suoi scritti, Giuseppe si rivela fine psicologo e abile
ritrattista: descrive i personaggi che vivono intorno a lui e ne delinea le
caratteristiche fisiche e caratteriali con sensibilità e arguzia. È in grado
di analizzare in profondità anche i suoi stessi stati d’animo. Trova sempre
soluzioni estemporanee per non cadere in depressione con la stessa ingegnosità
creativa che applica quotidianamente nell’affrontare i problemi pratici.
La sua onestà intellettuale, lo porta spesso a trovarsi in
situazioni dove pecca di ingenuità. Soffre moltissimo quando scopre che alcuni
compagni di prigionia abusano della sua buona fede. Empatizza con i più
sfortunati, come i prigionieri russi. Sostiene e conforta coloro che non hanno
capacità adattive e poche risorse intellettuali per far fronte alle dure
necessità quotidiane e soprattutto, quando è in gioco la stessa sopravvivenza.
Un piccolo grande uomo.
Beatrice Meloni
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