venerdì 17 novembre 2017

Ho riletto il lavoro che abbiamo fatto con Beatrice nel 2014.


Premessa
Non abbiamo vissuto come i bruti.
Non ci siamo richiusi nel nostro egoismo.
La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie,
la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli,
il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti.
Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili,
con un passato e un avvenire.
Giovanni Guareschi
Anche Giovannino Guareschi, l’indimenticabile creatore di perso­naggi come Don Camillo e Peppone, fu uno dei 716.000 italiani deportati dopo l’8 settembre 1943 nei lager tedeschi. Le condizioni dei militari italiani nei lager furono eccezionalmente crudeli: privati della qualifica di “prigio­nieri di guerra” in quanto considerati dai nazisti come dei traditori, e classi­ficati “Internati Militari Italiani (IMI)”, non potevano beneficiare della pro­tezione della Convenzione di Ginevra né essere assistiti dalla Croce Rossa: gli unici generi di conforto erano i pacchi inviati dalle famiglie.
Il regime nazista offrì la liberazione dai campi di prigionia e il rinvio in Ita­lia a quei prigionieri italiani che si fossero arruolati nelle forze armate della Repubblica Sociale. La propaganda degli “arruolatori”, ufficiali italiani in­viati dal Comando dell’Esercito repubblichino, fu pressante. Una minima quota di prigionieri aderì alla proposta (per poi in molti casi unirsi alle formazioni partigiane dopo il rientro in Italia1), ripetuta e incessante dal momento della cattura fino ai primi mesi del 1944, quando gli Imi avevano già fatto l’esperienza del durissimo inverno 1943 nei lager.
Il fatto che la stragrande maggioranza degli Imi, soldati e ufficiali rifiutò di aderire alla Rsi costituì un disconoscimento di massa di altissimo valore civile e politico. Rimanendo nei campi, restava l’amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze mo­rali e fisiche, il prevedibile rischio di morire (circa 40.000- 50.000 internati pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condus
sero a morte). Quella degli Imi che non cedettero alla propaganda fascista fu una Resistenza senza armi, ma altrettanto importante, dal punto di vista simbolico, di quella armata che agiva in Italia. Sulla situazione degli I.M.I. così si era espresso, fin dal 27 marzo 1944, il Comitato di Liberazione Na­zionale Alta Italia:
«Il C.L.N.A.I., a notizia del selvaggio trattamento al quale vengono sot­toposti, da parte degli aguzzini nazisti, gli ufficiali ed i soldati italiani internati nei campi di concentramento in Polonia che si sono rifiutati di prestare servizio nelle organizzazioni militari e civili tedesche; esprime a questi coraggiosi - che pur brutalizzati e seviziati in tutti i modi, in una suprema affermazione di dignità e di fierezza, hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico - la sua solidarietà e l’ammi­razione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo; denuncia i responsabili dei delitti e delle atrocità affinché siano, a suo tempo, giudicati e giusti­ziati come criminali di guerra».
La Repubblica Italiana, dopo anni di colpevole oblio, ha conferito il 19 novembre 1997 la Medaglia d’Oro al Valor Militare all’ “Internato Igno­to” con la seguente motivazione:
«Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di sten­ti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe ri­acquistato la propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui valore ancora oggi è esempio di redenzione per l’Italia».
Inoltre nel 2000 è stato riconosciuto il 27 gennaio (data dell’abbatti­mento dei cancelli di Auschwitz) come il “Giorno della Memoria” in ricor­do dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti,
«in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Infine, con Legge n. 296/2006 è stata concessa una medaglia d’onore ai cittadini italiani (militari e civili) che nell’ultimo conflitto mondiale furo­no deportati e internati nei lager nazisti.
Giuseppe Giacobinelli partecipò a questo movimento di Resistenza ai na­zifascisti dal giorno del suo arresto, il 16 settembre 1943, fino alla fine della sua prigionia. Il suo rifiuto fu soprattutto motivato dalla fedeltà al giura­mento che aveva fatto al Re prima da soldato e poi da ufficiale, ma determi­nante fu anche il disprezzo verso il Fascismo che egli definì
«Un sistema disonesto e disonorante per una nazione da un passato cristallino e trasparente. 28 ottobre2 lutto nazionale per la nostra cara Patria oggi in balia di tutti e con la sua gente migliore in mano dell’al­leato di ieri e che oggi ci tratta in modo indegno[...]3».
Le tappe della prigionia
All’inizio del quarto quaderno del suo Diario, gelosamente custo­dito e fortunosamente conservato attraverso tutti i trasferimenti, salvato con astuzia dalle rischiose perquisizioni, Giuseppe Giacobinelli riassume le tappe della sua prigionia in uno schema. Riportiamo fedelmente quanto scritto da lui stesso:
Le tappe del Calvario
9 sett. 943: Armistizio
11 sett.: Faccio rompere le righe ai miei Alpini
12 sett. 943: Pongo in libertà gli Ufficiali
13 - 14 sett.: arrivano truppe tedesche
16 sett. Belluno - S. Candido
17 sett. S. Candido - Lienz
18 - 22 sett. 943. Lienz - campo di Kustrin
27 - 29 sett. 943. Kustrin - campo di Deblin
26 nov. 943. Deblin - Deblin Triangolo
1944
17 -20 gennaio. Deblin - Tschestochau
9 - agosto. Tschestochau - Norimberga.
1945
29 genn. - 1° febb. Norimberga - Lichterfeld sud (Berlino)
14 - 19 febb. Lichterfeld - Altengrabow
4 maggio. Liberazione
8 - 9 maggio. Altengrabow - Belzig
29 maggio. Belzig - Strauberg
27 luglio. Strausberg - Bucow
L’elenco si ferma qui, ma da Buckow, quartiere meridionale di Berlino, ri­parte solamente un mese dopo, il 28 di agosto, con un viaggio, ça va sans dire, su carri bestiame. Arriva a Trento il 4 settembre, dove trova ad atten­derlo un Comitato di accoglienza di Belluno. Qui riabbraccerà finalmente la sua adorata Tucci.
Perché segreti
Ci siamo chiesti perché il Genera­le avesse tenuto segreti i suoi diari senza pubblicarli. Aveva salvato quei quaderni da innumerevoli e rischiose perquisizio­ni, li aveva conservati con grande cura durante i trasferimenti da un lager all’al­tro. Perché non pubblicarne il contenuto? Le tre ragioni principali si possono de­durre dai diari stessi e dalle testimonian­ze di persone a lui vicine che hanno con­servato gelosamente i manoscritti dopo la sua morte. Non lo ha fatto nemmeno in estratto, al ritorno dalla prigionia, no­nostante avesse espresso tale proposito già all’inizio del primo quaderno. Date le condizioni del contesto politico-sociale del secondo dopoguerra, ritenne sicura­mente di attendere un clima più disteso e meno conflittuale.
La vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 lo aveva profondamente deluso e amareggiato. Nel suo diario la difesa del­la monarchia e l’esaltazione del ruolo storico di Casa Savoia sono ovunque presenti: non dimentica mai i compleanni del Re e della Regina, condivide la lettura della Storia cara ai monarchi e conferma ad ogni passo la fedeltà senza riserve al suo giuramento da soldato e poi da ufficiale del Regio Eser­cito. La sua concezione politica ispirata ad liberalismo conservatore, la sua formazione nazionalista di stampo risorgimentale, la sua cultura letteraria influenzata dal romanticismo ottocentesco non gli concedono strumenti per analisi critiche sull’operato dei Savoia. Un altro elemento, forse quello più determinante per un uomo della sua statura morale, fu la consapevolezza che la sua vicenda di internato, le umiliazioni subite, il freddo, la fame, la mancanza di igiene non erano nulla al confronto con quanto aveva vissuto la maggioranza delle altre centinaia di migliaia di uomini che, come lui, erano stati caricati sui carri bestiame all’indomani dell’8 settembre ‘43. Si era reso conto fin dal rimpatrio che le sue sofferenze non erano nemme­no paragonabili, in molti casi, a quelle subite dai suoi stessi Alpini. Si era sentito un privilegiato davanti alle larve umane che scendevano dai treni provenienti dal nord.
Il terzo elemento che lo frenò nella divulgazione anche tardiva dei diari fu, presumibilmente, l’imbarazzo per le espressioni di odio nei confronti dei Tedeschi (ma gli scritti non esimono nemmeno i Francesi). Espressioni che stridevano fortemente con il clima politico e culturale del secondo dopo­guerra, teso a costruire una pace solida e duratura tra i paesi europei e ad evitare gli errori seguiti al primo conflitto mondiale.
La costruzione del Mercato Comune e le tappe verso un Unione europea non erano compatibili con alcune frasi contenute nei diari e soprattutto con il titolo ch’egli avrebbe voluto in caso di pubblicazione (Perché dobbiamo odiare i Tedeschi). Giuseppe stesso, d’altra parte, per il suo carattere aperto e gioviale, per le sue caratteristiche di uomo di mondo, che aveva viaggiato in gioventù per tutta Europa, aveva superato con il passare del tempo l’av­versione reattiva nei confronti dei suoi ex-carcerieri. Agli inizi degli anni ‘70 fu parte attiva, con gli Alpini gavardesi, nel gemellaggio tra Gavardo e Weiden - Löwenich, quartieri orientali della città tedesca di Colonia. Dopo la sua morte i quattro quaderni segreti del Generale Giacobinelli hanno ri­schiato di andare perduti, data la numerosità e la eterogeneità degli eredi. E’ stata la determinazione delle nipoti Rina e Cecilia e della pronipote Clara a salvarli fino alla pubblicazione.
Perché pubblicarli ora?
A settanta anni di distanza questi scritti costituiscono un documento di rilievo storico per vari motivi. I diari di prigionia di ufficiali superiori fino­ra pubblicati non sono molti.4 Giuseppe scrive quotidianamente, senza man­care un giorno, anche dopo la fine della prigionia, dal maggio al settembre ‘45 sino al giorno del rimpatrio. I diari non sono stati revisionati, né riveduti dall’autore che li ha conservati così come sono stati scritti, a caldo, nel corso dell’esperienza di internamento.
Se fossero stati pubblicati in precedenza il rischio di una lettura mediata da filtri ideologici sarebbe stata maggiore di quella attuale. Oggi ci è consentito leggere queste pagine con la “giusta distanza” che permette di guardare alla vi­cenda umana di Giuseppe Giacobinelli senza pregiudizi e ascoltare il racconto di una esperienza che ha segnato la sua vita e quella degli altri ottocentomila internati e che ha generato, in seguito, scelte individuali e collettive determi­nanti per la nascita e l’evoluzione della democrazia in Italia.5
Chi era Giuseppe Giacobinelli
«Tracciare un profilo dello scomparso è impresa ardua date le molteplici attività da lui espletate con entusiasmo e dinamismo suscitando intorno a sé stima e naturale simpatia».
Così scriveva il corrispondente del Giornale di Brescia il giorno dei suoi funerali.6
El colonel come molti suoi concittadini continuavano a chiamarlo anche dopo la promozione a Generale della Riserva, era dotato di una forte perso­nalità che lo faceva emergere in qualsiasi ambiente si muovesse.
Ragazzo cresciuto in fretta agli albori del Secolo breve, primogenito dei cin­que figli di Terzio, fin da bambino mostrò un carattere avventuroso e intra­prendente. Racconta la nipote Mariangela:
«Era un bambino delle Elementari... un pomeriggio, prima dell’apertura della scuola, lui e un suo amico salirono sul campanile della Chiesa per prendere i piccoli passerotti da un nido; dovevano rientrare in classe e non sapendo dove mettere i passerotti, li misero nel giubbetto. Ad un tratto nel silenzio della classe si sentirono i pigolii degli uccellini, il mae­stro fissò tutti i ragazzi perché non capiva, poi i colpevoli furono sgridati e il fatto servì da lezione ‘si devono rispettare gli animali’...».
Dopo la licenza elementare aveva iniziato a lavorare come commesso in un negozio, ma il piccolo e angusto mondo del paese natio gli andava molto stretto. Scrive nel suo diario: “...pensavo alla mia giovinezza tanto avventurosa, ero stato proprio uno scavezzacollo!” Giuseppe se n’era andato da casa in gio­vanissima età (tra i quindici e i diciassette anni secondo le varie fonti orali) e si era imbarcato a Napoli come mozzo sulle navi che facevano rotta verso l’Inghilterra. Le esili tracce documentarie lo indicano residente a Londra fino al 1911, l’anno successivo a Zurigo. Racconta ancora Mariangela:
«...di ritorno da uno dei suoi viaggi portò un paio di pattini a rotel­le, novità assoluta allora. Di corsa partì dal Bostone con gli schettini ai piedi; era giorno di mercato, la gente spaventata e meravigliata si chiedeva cosa avesse ai piedi quel ragazzo per correre così veloce­mente!»
Comincia, nel settembre del 1912 la sua carriera militare, carat­terizzata, fin dall’inizio, da un forte spirito d’iniziativa e da una dedi­zione senza riserve. Con la sola li­cenza elementare, senza aver fre­quentato l’Accademia Militare, in soli tredici anni scala la gerarchia da soldato semplice a capitano. È Colonnello Comandante del 7° Reggimento degli Alpini quando la sua carriera è interrotta dall’ar­resto e dalla successiva prigionia in Polonia e in Germania.
Fedele al giuramento fatto al Re, non accetta di giurare fedeltà alla neonata Repubblica: è col­locato a riposo nell’aprile del 1946.
Anita
Ho sempre qui presente la sera della separazione con mia moglie. L’ho vi­sta e la vedo ancora disperata dal dolore; il suo viso era irriconoscibile; durante le lunghissime giornate di viaggio in carro bestiame ho sempre pensato a quel povero e amato viso profondamente segnato dalla pena e dal dolore e che ancora una volta mi testimoniava tutto l’amore e la dedizione assoluta che mi ha sempre portato. Sei eroica mia cara Anita e io non sono degno di te.
La figura centrale della sua vita fu sicuramente Anita Vergnano, la moglie. L’aveva conosciuta a Torino e, dicono alcune fonti, avvicinata per gioco. Dimenticò presto il motivo dell’approccio, perché si innamorò perdutamente, ricambiato, di quella donnina minuta, ma determinata, vi­vace e sportiva. Oltre alla predilezione per le sigarette di buona qualità, condividevano la passione per lo sport e per la montagna. Frequentavano spes­so le piste sciistiche d’inverno e i sentieri impervi durante l’estate. Amavano la vita brillante delle feste danzanti e delle tavole imbandite.
Non ebbero figli ed è anche per questo che Giuseppe mantenne un rapporto di grande affetto con i numerosi nipoti.
Il dopoguerra
Dopo il suo congedo egli fu so­stenitore o animatore in molteplici realtà associative e istituzionali a Gavardo, dal Consiglio Comunale, alla presidenza del­la Scuola Materna, al Gruppo della Mon­tagna, al Tiro a segno. A quest’ultima atti­vità sportiva dedicò molte energie. La ri­nascita della Sezione locale nel si deve in gran parte al suo appassionato e generoso sostegno, anche finanziario. Grazie al suo appoggio un gio­vanissimo tiratore gavardese, Carlo Vezzoni, dopo aver vinto sei volte quello italiano, partecipò al Cam­pionato europeo di Budapest ed infine alle Olimpia­di di Roma del 1960. Firmava con lo pseudonimo L’Alpino Giaco le frequenti missive, lettere, biglietti intestati che inviava agli Alpini attraverso il suo più stretto collaboratore, Isidoro Codenotti, reduce da Nikolajewka, storico Capogruppo di Gavardo. L’As­sociazione degli Alpini sia nel Gruppo di Gavardo, sia nella Sezione Montesuello, era sempre al centro delle sue attenzioni. Alla sua generosità si deve, per esempio, la costruzione della Chiesetta degli Alpini sul Monte Tesio, ma non mancava mai di dare il suo prodigo contributo ad ogni iniziativa benefica e di solidarietà.7 L’amore per la musica, che aveva con­diviso con Anita, era continuata anche dopo la sua scomparsa. Alla Fanfara Alpina, che egli seguì con grande entusiasmo, dedicò tempo e risorse, incoraggiando soprattutto il ta­lento dei giovani musicisti. L’ultimo appello: 7.30 del mattino, il 20 maggio 1973.
Un austero masso di granito del “suo” Adamello lo ricorda nella piazzetta davanti alla Scuola dell’Infanzia “G. Quarena” di Gavardo.
m. a.
Nota a margine
Mi sono avvicinata a questi scritti, confesso, con un atteggiamento forte­mente pregiudiziale. La figura del Generale, nella mia memoria, è sempre apparsa retorica e marcatamente militarista. Nonostante in alcuni passaggi del diario que­ste mie opinioni siano state confermate, ho potuto constatare, pagina dopo pagina, la sua grandezza d’animo e la sua sconfinata generosità.
L’aspetto che più colpisce è il rispetto profondo per le donne che emerge so­prattutto, nella parte finale del suo racconto, nella descrizione dello sfacelo morale dopo la fine della prigionia. Il rapporto con la sua “Tucci”, la moglie Anita, che appare in quasi tutte le pagine dei quaderni, d’altra parte, è talmente intenso da farne la figura ispiratrice, la fonte di speranza, il movente per superare le sofferenze e le difficoltà. La ragione per tornare, ad ogni costo. Lei, donna emancipata, auto­noma, intraprendente, trova costantemente le risorse per inviare pacchi di viveri, abbigliamento e l’immancabile tabacco nei vari lager dove Giuseppe è prigioniero. Per farlo, mobilita tutta la famiglia e i molti conoscenti: a Gavardo, a Sanremo, a Belluno e a Torino.
Nei suoi scritti, Giuseppe si rivela fine psicologo e abile ritrattista: descrive i personaggi che vivono intorno a lui e ne delinea le caratteristiche fisiche e ca­ratteriali con sensibilità e arguzia. È in grado di analizzare in profondità anche i suoi stessi stati d’animo. Trova sempre soluzioni estemporanee per non cadere in depressione con la stessa ingegnosità creativa che applica quotidianamente nell’af­frontare i problemi pratici.
La sua onestà intellettuale, lo porta spesso a trovarsi in situazioni dove pec­ca di ingenuità. Soffre moltissimo quando scopre che alcuni compagni di prigionia abusano della sua buona fede. Empatizza con i più sfortunati, come i prigionieri russi. Sostiene e conforta coloro che non hanno capacità adattive e poche risorse intellettuali per far fronte alle dure necessità quotidiane e soprattutto, quando è in gioco la stessa sopravvivenza.
Un piccolo grande uomo.
Beatrice Meloni



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