mercoledì 23 ottobre 2019




QUELLO CHE NON HO… È UNA CAMICIA BIANCA
Stava gustando intensamente gli aromi di una miscela di Virginia Burley e Kentucky che aveva composto pochi giorni prima, curioso di sperimentare nuove sensazioni. Aspirava da una vecchia Royal Dutch, una splendida pipa di radica, fornello basso e tondo e bocchino corto e ricurvo che teneva, tra le sue preferite, per i momenti di assoluto relax. Nell’aria la voce del vecchio Bo Diddley e il suono della sua mitica Cigar box.

Per evitare fastidiose interruzioni del rito aveva lasciato lo smartphone nel corridoio, lontano dalla poltrona nella quale era sprofondato. Per questo non aveva sentito il segnale del messaggio e erano trascorse alcune decine di minuti prima che ne vedesse l’icona e ne leggesse il contenuto. Laconico: “Devo parlarti con una certa urgenza”. Due particolari lo avevano subito colpito: il contenuto un po’ ansioso e ansiogeno ma soprattutto il fatto che il mittente fosse un collega molto noto, un Maestro, che aveva incontrato poche volte, con il quale aveva scambiato solo rare battute o poco più di un saluto a margine di performances o workshop. Si sentì lusingato per l’implicita confidenza e curioso di conoscere i motivi della sottolineata urgenza.
Cercò il suo nome nella rubrica e lo richiamò.
- Domattina devo tenere un team building percussivo in una grossa azienda di Milano. Non me la sento di farlo da solo, ma il mio socio abituale, lo ricordi, vero? Si è ammalato, potresti sostituirlo? Lo so… all'ultimo momento … non voglio metterti in difficoltà.
- Io… mah… non so se sono in grado…
- Non dire sciocchezze! Sei molto bravo. Ti ho visto all’opera, come interagisci, la tua energia… non ho dubbi! Mi farai fare un’ottima figura. Domattina ore 7.00 al binario 1. Camicia bianca con papillon e pantaloni neri, ça va sans dire. Ah! Naturalmente scarpe, non i soliti ciabattoni, lo so che ti chiedo un grosso sacrificio, ma qui siamo al top!
Un attimo di silenzio.
- Va bene, ti ringrazio per la fiducia. E gli strumenti?
- Li ho già fatti recapitare sul posto e collocati nella sala, non preoccuparti, li troveremo pronti all’uso. A domani!

Asciutto, diretto e, in qualche modo, perentorio: i primi due aggettivi li trovò consoni al suo immaginario, il terzo, sinceramente, un po’ fastidioso. Ma, tant'è, l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Non era il caso di essere troppo suscettibili.
Cominciò a far mente locale sull'abbigliamento, ma l’immagine di sé in abito elegante lo fece sorridere: non indossava abiti civili da un secolo, solo tute da lavoro, maglie e magliette stinte.
Dunque… i pantaloni neri… facile! Ne aveva acquistato un paio l’anno prima per partecipare ad una pièce di teatro sperimentale con musica e danza, stressato da un amico che lo voleva a tutti i costi sul palco. Aveva interpretato la parte di un intellettuale parigino della Rive gauche con tanto di dolcevita, anch’essa nera. Come aveva richiesto la sua parte consisteva in monosillabi e gesti. Non amava la sua voce e soprattutto la pronuncia fortemente segnata da inflessioni dialettali.
- Pantaloni a posto! - pensò – sono qui, nella casa in città. E il papillon?
Ah, sì, quello l’aveva conservato dai tempi nei quali aveva fatto il cameriere al Grand Hotel sul lago.
- Insieme alla piccola cravatta ci dev’essere una camicia bianca!
Salì sull’auto e si diresse verso la casa dei genitori, quaranta chilometri a sud est. La mamma aveva sicuramente custodito l’abito delle sue esperienze giovanili nella ristorazione.
Il traffico era scorrevole e giunse a destinazione abbastanza in fretta. Suonò il campanello, più volte, ma nessuno rispose.
- Maledizione! Proprio oggi!
Si sedette, deluso, frustrato, sul muretto e gli venne una tale rabbia in corpo che avrebbe pianto se non gli fosse balenato un ricordo: suo padre nascondeva un paio di chiavi in un buco del muro di cinta tappato con un sasso, sul retro del giardino, per le emergenze. E questa lo era, senza dubbio. Bravo papà!
Trovò il mazzo delle chiavi e finalmente riuscì ad entrare. Nella cameretta che aveva occupato prima di traferirsi in città c’era ancora il suo armadio. In un cassetto trovò il papillon e, come previsto, anche la camicia bianca. Gli bastò un’occhiata per rendersi conto che gli sarebbe andata a pennello una ventina di chili prima. Infatti le braccia entravano a fatica nelle maniche, il collo era stretto e bottoni e asole rimanevano distanti almeno una decina di centimetri.
Era necessario inventarsi qualcosa. Il pomeriggio avanzato richiedeva soluzioni rapide.
Considerato che si trovava al paese telefonò a un suo caro amico, che abitava in campagna a un paio di chilometri dall’abitato.
- Certamente! Vieni qui, ho una bella camicia bianca, l’ho comprata per andare a nozze di mio cugino.
- Grazie!
Via di corsa sulla strada sterrata che portava alla fattoria.
Quella del suo amico era davvero una bellissima camicia, ma tra asole e bottoni, anche in questo caso, c’era incomunicabilità.
- Mi spiace, è l’unica che ho… te l’avrei prestata volentieri. In effetti ti sei irrobustito mica male negli ultimi anni!
Che fare a questo punto? Erano già le sei di sera e non aveva ancora risolto il problema.
Avrebbe potuto acquistarla nel negozio lì in paese ma sapeva, per sentito dire della madre e della sorella, che i prezzi erano piuttosto alti.
- Nel mio spazio della moda tengo solo capi di una certa classe, quelli dozzinali li potete comprare anche sul mercato o nei supermercati cinesi, pare abbia detto in più di un’occasione la signora Delia.
Gli spiaceva investire tanto denaro per una camicia bianca che non avrebbe più indossato in seguito, forse.
Risalito sull'auto, la diresse perciò verso il paese vicino dove c’era un negozio, quasi un centro commerciale, gestito appunto da cinesi. Trovò la camicia della sua misura e la pagò pochi soldi, come previsto. Poteva, tuttavia, presentarsi con tutte quelle pieghe della confezione?
Doveva essere stirata. Sua madre non era ancora tornata, non sapeva dove mettesse il ferro da stiro per far da sé e dunque si ripresentò alla porta della fattoria.
- Dovrei chiedere un favore alla tua mamma… se può prestarmi il ferro da stiro…
La signora fu felice di rendersi utile stirando lei stessa la camicia e volle che fermasse anche a cena.
- Sono le sette e mezza, ormai, dove vai a quest’ora? Prima che arrivi in città è già ora di andare a letto!
Tornò in città, felice per aver risolto il problema e per la cena squisita.
Il mattino seguente, puntuale, incontrò il Maestro sulla banchina del binario e presero il treno veloce per Milano. Il taxi li portò alla sede dell’azienda. Un palazzo di vetro e acciaio imponente nello skyline della metropoli. Al quindicesimo piano li accolse una segretaria gentilissima, ma assertiva. Occhiali a occhi di gatto di tartaruga, tailleur nero, camicetta bianca con il collo alto e il papillon. Notò con sorpresa che indossava un paio di ballerine di vernice, anziché i soliti tacchi a spillo.
Li accompagnò in una saletta.
- Vi prego di attendere qui. I dipendenti interessati al vostro incontro stanno salendo alla spicciolata, quando saremo tutti pronti verrò a chiamarvi.
Appena la porta si chiuse dietro quella nuvola di J’adore, si tolsero le giacche e iniziarono a controllare, in uno specchio grande come la parete, che la camicia non si fosse stazzonata durante il viaggio e a ripristinare la simmetria del papillon con il collo.
Dopo qualche minuto la segretaria rientrò con un busta di carta.
- Siamo quasi pronti. Intanto, per favore, toglietevi le camicie e indossate le magliette con il logo dell’azienda.
Prima di scomparire nuovamente dietro la porta, si voltò con un sorriso.
- Grazie, vi aspetto nel salone.

venerdì 8 febbraio 2019

ANCORA IL DIALETTO...
Immodestamente scrivo questi brevi racconti in dialetto, pregando chi li legge di perdonare l'imprecisa ortografia. Scrivere in dialetto, almeno per me, non è facile.

EL  CARDINAL SUBIOTTI

Certe matine pasa de ché apò el Cardinal Subiotti. No, lü el se ciama Cristoforo, l’è mia un cardinal vero, el ciamom scé noter per el sò portament, el sò fà,. Tale e quale el so poer bubà, chel putativo, neh…el Cavalier Gelsomino Subiotti. Putativo, come San Giusepe, sul che la part dele Spirito Santo el la fada on omasì che girava a vender l’oio de la Riviera. Dopo l’ontada, apena chel gà sait che la poera Nina, la mama del Cardinal, l’era ‘n stato ‘nteresante el gà fat finta de neent. Alura el Cavalier Gelsomino, che l’era pöt, amico de famea, el la spuzada.
El Cardinal el porta giaca e cravata, la siarpa e el capel istat e inverno. El camina stinco come s’el ghes la schena blocada; quant l’encontra vergù che el la saluda el fa un inchino leser col có e el rispont: “Buongiorno, caro!”. Se envece l’è ‘na fomna el ghe dis: ”Buongiorno,cara!” e po’ el ghe fa el baciamano. L’è un signore, neent da dì.
El ciamom Cardinal doma per el fato ch’el gà tentat apò la strada ecclesiatica. El gares vulit deentà almeno cardinal, se no Papa, la dizia la so poera mama. L’è stat en semenare devers agn, pò un dé l’ignit a casa. I l’a sconsigliat de nà aanti, se sa mia el perché. Vergù i dis che l’era trop ambisius, vergù i dis che i l’a troat de not sota en oter seminarista (e ghera mia i lècc a castel neh!), vergù i dis che l’è stada la so poera mama a fal vegner a casa perché l’era restada vedova… fato sta ch’el gà cambiat strada el se mes a fa el sicüradur come el Cavaliere.
L’è ‘ne studioso, neh, el ghe sa töta la Stória del paes e mia apena. El va ‘n giro a fa le conferense. Se sa mia come: el gà on sac de solcc. L’è vera ch’el gà redetat dai so genitur, ma el Cavalier a forsa de elemosine el ghe n’era mia tanti.  De ciacere ghe n’è ‘n giro tante, ma la piö giösta, per me, l’è chela che l’omasì de l’oio el gà lasat töt a lü per riparà el tort ch’el gà fat a la so mama.
L’è ‘nteligente, sior, educato, anche se mia bel fes, come mai el troa mia ‘na fomna de spuzà? Me ghe l’o domandat e lü el s’è cavate l capel el m’a rispundit, tirando ‘dré i cavei:
-C’è tempo, caro, c’è tempo…
L’o vardat e go pensat: ghe piaserale po’, le fomne?

EL  CÜZÌ SPIÙ
El ria töte le matine, ‘nvers le òt, òt e meza co la so bicicleta verda smarida de Carlo ü, el la liga co la cadena al pal del fanal, zo là ‘n font alla piasa e po’ el cumincia el sò giro. Prima el va da la Liseta del Patilù, che l’è la prima a derver botega, el s’enfurma sö le disgrasie, le beghe e le fomne incinte. Dopo el và sce dré a fale pasà töte: la tabachina che la dis che la völ saì neent ma ’nvece la conos el nà el vegner de töcc, la pastisera che la sa le facende de chei che va a fa colasiù col capucino e la pastina dulsa,  el barber, che però l’è quasi semper serat, col cartel “Torno subito”, ma quant ch’el ghè l’è ‘na pegnata de tocio, el boi föra töcc i peteguless del paes. L’è mia curius, l’è la spia de cüzì, el Sindec.
Alla fì el ria ché al bar, ma el si senta mia zo come fa i oter. El gira da un taulì a l’oter a salüdà, a fa salamecchi, come stal chel lé, come stal chel là,come vala föra lé nela vosa contrada, e via discorendo. Ala fine el sieglie el taulì vizì al gruppo piö ‘nteresante e l’urdina el cafè.
I quater buntimpù del trizac i gà deciso de tiral per el cosidetto. I gà ‘ncuminciat a bater lé ‘na frase co l’aria circospeta apò un’otra e un’otra amò, fin ch’el gà bocat come ‘n caasì.
Quante ‘l gà cominciat a sintas zo vizì a lur töte le matine, i gà dat el via ala tiritera.
- El vera?, set sicür?
- Se te dize de se!
- Chi tel’a dit a te?
- El preost! El gà de nà ala Madona del Röbagot, el pasa apena.
- Pota, ma un fato cosé, come fai a tignil scundit?
El dé dopo.
- Me somea mia pusibol…
- Te dize de se!
- Prope el Papa?
- Fa sito! Parla almeno a basa us! To dit che l’è ‘na notisia riservada
El dé dopo amò
- Ma quant pasel de ché?
- Martedé che vé, envers le tre del dopomesdé! Però sito, ghe mia de fà reclam, perché el völ mia fermas!
Dopo chesta frase el cüzì l’è saltat en pé e l’è nat vià de cursa. L’è nat a riferiga al Sindec che pasaa el Papa dal paes, ma el se sares mia fermat. Se vede ch’el preost, che, s’el sa, el va mia d’acorde col primo citadino, el gà tignit scundida la notisia.
El martedé, ale tre dopodisnat, sota un sul che spacaa le prede, serem de löi, el Sindec, giaca e cravata e fasa tricolore, con du asesur e ‘l so cüzì l’era ‘n font al paes a spetà.
-       Saral cola machina?
-       Pöl mia eser: vöt mia ch’el gabe dré du o tre cardinai, el segretare, el coro, do suore per faga i mester, ensoma, ghe völ en pulman.
Dopo ‘n ura
-       Set sicür de iga capit bé?
-       T’el züre söl co de la me fomna!
-       Bela fadiga!
Dopo do ure
-       Per me te ghet capit en ostia!
-       So sicür ch’e i ga dit che pasaa el Papa dopodisnat!
Mis de südur come puzì, le face rose come rave, i era dré che i naa a casa, quant i gà sintit el rumur del mutur de un mezo gros, de dré de la cürva prima de l’ingres del paes.
-       L’è ché!
Al post d’en pulman, ghè rivat un camion. Söl tilù ghera scrit, grant come ‘na casa: “Papa Ermenegildo - trasporti internazionali”

 I NOM    
‘Na olta la piasa , specialment d’istat, l’era el regno dei gnari e dele gnare, grancc, picinì, de töte le età. I zügava a curis dré, a cip,  a ciche, a scaalcamulete, a mondo, ‘nsoma i se perdia vià, tanto è vero che bisognava semper ciamai per nà a cà a fa i compicc o a mangià, ma chèl magare ghera mia scé bisogn, ghe pensaa le stomech a sunà ‘l mesdé. Alura se sintia le us dei bubà e dele mame:
“Antonio, vé a cà che l’è pronta!”
“Batista vegne a töt a pesade ‘n del cül!”
“Maria, se te vegnet mia sübit a preparà la taola, te fo fa mé i salti, co le stropel!”
I era chei lé i nom che girava, Antonio Batista, Luigi, Giusepe, ecetera per i gnari, Maria,Caterina, Margherita, Madalena, ecetera per le gnare.
Al dé de ‘n cö, a stà che ‘n piasa te sentet ciamà i pütì, chei poc che pasa, tacacc a le sotane de le so mame, Rich, Yuma, Vilmer, Kevin… e le pütine? Belen,  Sharon…Hillary
Ghe l’o mia sö coi tati, l’è mia culpa sò…
Va bé… el mont l’è cambiat e bisogna sai stà ai tempi, el dis chela siensa del me fiöl.
Però ghè ‘na roba che me sta söl gos, go de contavela.
En dé, so che che lese el giornal, sintat zo de föra del bar, e sente:
“Gianni, Gianni, vieni qui subito!”
Me meso mia girat a vardà, perché vulia mia someà curius
“Gianni, Gianni, vieni qui, immediatamente!”
Go pensat: “Eco en bubà che fa ‘l so mester el se impone col fiöl!”
Me na mà, me gire co l’aria distacada e no vede che l’è l’aocat Calessi che ciama el so cagnì?!? Robe de nà vià col co!
Ma el pegio el ghera amo de rià. Quac dé dopo vé deter nel bar ‘n siura con dena sporta, la senta zo e la cumincia a parlà cola sporta: “Bettina, sta tranquilla, che dopo ti do il biscottino… brava la cocca della mamma! Brava la mia piccina!”
L’è nada aanti des minücc a parlà co la bursa. En tra me pensae che l’era ‘na poera mata, En vidie pasà de zet sciopada, burlada zo dale scagnù da picinina, a töte le ure del dé! giöna piö, giöna meno…
Envece, tee, dopo 'n moment, vé föra da la sporta un cosatì de cagnì töt piluss che no se vidia gnà i öcc.
Betina, Betina la la ciamaa! Ve rindif cönt? Se la ghes de senter la me poera zia, Porsellini Elisabetta detta Betina, la se riulta ‘n de la tomba, ansi la fa i scüi martei che per furtuna che ghè la lastra a tignila deter, pace a l’anima sua!
A proposit de nom, comunque, el colmo l’o sintit en dé:
“Uber, Uber, non correre!” go leat i öcc da la Gazeta e go vist ‘na mama, che po’ l’era la fiöla del Gino Patilù, chel de le scarpe, che ciamaa el so pütì. Ma porca galina! el diseres el Torno subito.‘Ndo sarai nacc a töl che nom lé?
La me fomna la dis che so curius come le betoneghe, ma l’è mia vera, töte bale, mi tengo informato, semplicemente!
Go fat e go brigat finamai ch’en dé go gatat la fomna del Patilù da sula en botega.
Ciao Ciao come stet, che sà e che là… go vist la tò fiöla col so pütì… e so nat sö l’argoment. Beh, el zener del Patilù, en alter pucianigoi, l’è patit de la Germania, l’è ‘namurat dei cruchi de le so machine, dela tecnologia, finamai del so calcio, ma el ghe sa mia ‘na parola de todesch. En bel dé l’è nat en vias en dena cità todesca, domandim mia el nom, perché l’è trop cumplicat. Lé el s’è troat bè anche s’el capìa negot.  En dena bireria el gà vist un cartel en sima al banc con scrit : Deutchland Uber Alles. Forse l’era restat lé da l’ultima guera. La prima parola però l’era quarciada da i bigliecc de le urdinasiù, el vidia apena Uber Alles. El gà pensat che Uber el föss el nom  e Alles el föss el cognom de chel oster grant e gros, fat zo en po col podet, ma simpatic e quant l’è vignit a casa, el gà dit a la so fomna che l’era en stato ‘nteresante: “Se l’è ‘n mascc, el ciamom Uber!” 

LA PIASA
Vidif chesta piasa? Töta neh? Case, boteghe, portec, töta ‘nsoma.
Beh, fina a l’ ültima guera l’era so de ‘na persuna sula! L’è inutil che fief chele face lè, dize la verità! L’era töta sò dela Marchesina Esmeralda Liquorini Dall’Ortica, ‘na siura vera, ültima disendente d’ena famea nobile. I ghera mia apena chela roba ché, neh, ma ‘l so bubà de l’Esmeralda ‘l gà maiat föra i teré co le carte e le fomne. A la Marchesina ghera restata apena (se fa per dì) el palas, ch’el lé di fronte e le altre cà de la piasa
La marchesina l’era ‘na bela fomna e la gà it devers pretendenti, töcc de ‘n certo livel, mia poeretam compagn de mé. Me cognose la storia perché la me poera mama la gà fat servisio ‘n del palas, quant l’era pötela, single, ‘nsoma, nom!
Ghè stat l’ingegner Timbrini de Bresa, ‘n zuinot de töt riguardo, ma ‘l ghera la fama de pucianigoi, de fànigot, e lé l’a la mia ulit.
Ghè stat ‘n per de nobili, giü del Mantoà, sior da fa schifo, ch’el ghera la fama de canarös, siupafemine e giü de Venesia, spiantat che se tel vultaet col cül ‘n sö, nàa ‘n tera gnà ‘n centesem. I a mia ulicc, ocor mia che vel dise.
‘Nsoma ghe n’è stacc ‘na téra e meza, töcc rifüdacc, fina a che ‘n dé ghe comparit chel giöst!  Conte Bruco Rasponi del Sale, romagnöl. L’era ‘n po sö de età, mia tat bèl, la disia la me mama, ma lé la s’è ‘nemurada sübit, un colpo di fulmine! Aviatore, ‘l disia che de gnaro ‘l ghera cunusit de persuna Francesco Baracca, pensa te!
‘Nsoma per scürtavela, ghè vignit la guera e lü, ocor mia dil, el s’è aruolato come pilota. Fato stà che so mia come e perché, ‘n dé del 43, dopo l’amistisio, l’è stat ciapat dai mericani. Sicome l’era nobile e pilota, i l’à mes ‘n de ’n aeroporto a fa n’po de ausiliario al volo.
En dé che ghè vignit ‘n ment? El gà robat ‘n aereo e l’è scapat. L’era sicür gnà de iga binzina asé, ma ‘l so scopo l’era ‘na a troà i tedesch, l’era ‘namurat del Fürer e el vulia aruolas con i cruchi. Vula e vula, söl mar, per mia fas veder, el gà finalmente vist ‘na nave todesca. Alura el gà cuminciat a giraga ‘n sima e a fa gesti col bras per tirà l’atensiù. El l’a tirada, ecome! El ghera desmentegat de eser sö ‘n aereo mericano, però. I todesch a l’inisio i garà pensat ch’el gheres biit, ma dopo n’ po, per la pora ch’el ghe burlaes söl co, i gà tirat tre canunade. Le prime dò i l’a falat e lü l’era töt contet perché el pensaa a salve di saluto e el continuaa a fa ‘l saluto romano, ma la tersa la gà ciapat la cua e el Conte Bruco l’è dat zo ‘n del mar. L’acqua l’era freda, serem d’inverno, e me m’emagine che l’è là amò ‘n font al mar col so bras zelat a fa ‘l saluto.
La notisia l’è riada al palas e da chel dé lé la marchesina la gà piö mangiat, gnà ‘n tòc de pà, gnent! La s’è lasada mörer dal diaspiaser.
La gà lasat töt a la parochia e sicome el preost el ghera de cumudà i cop de la cesa, el ghera de fa sö l’oratore nöf, cambià la machina, töga la lavatrice ala perpetua, cambiaga el rozare ala Madona, ecetera ecetera, el gà vindit töta la piasa, ‘n po per volta.
El Cümü el vulia abelì la piasa con dena fontana, un monumento, vergot de bel, ‘nsoma. El gà dat l’incarico a l’architet Minestrini Capazzi, ch’el ghera comprat ‘n tòc de palas l’è ‘n sima ala botega del fotografo. L’era brao fes, semper ‘n giro per l’Italia a fà progecc de palas, piase, vile. L’era la persuna giösta per fa bela la piasa.  Lü el s’è mitit a disegnà a fa le misüre, a ragiunà de che e de là, ma ‘n bel dé el s’è blocat: “Depressione grave” el gà dit el dutur.
Per capì ch’el che ghè süces bisogna fa ‘n pas ‘ndré. Sota el so apartament, al post del fotografo ghera ‘ne scarpulì, un calzolaio, un ciabattino (siura come goi de fa a faghela capì?) El Giacom Söbra, cozé i la ciamaa,tic tac tic tac tic e tac el batìa la minela matina e sera ma apena el ghera ‘n po de tep, el lisìa, el saìa la Gerusalemme liberata a memoria, tat per dì! El disia semper: “En dé o l’oter parte, ve lase ché en de sto paes de merda!”. Ma ‘l naa mai vià.
‘N dè, ‘nvece, l’è sparit, se sa mia ‘n do l’è nat. Se sa apena che l’era mia da sul.
La fomna de l’architet Minestrini, ‘na bela siura ‘n dé la sìa presentada a le scarpulì:” Mi potrebbe alzare il tacco, per favore?” El dé dopo “Mi potrebbe abbassare questo tacco, un po’ troppo alto per favore?” “Le pare che stia bene con la mia gamba?”
Fato sta che alsa el tac, sbasa el tac, sö e zö, sö e zö, avanti e ‘n dré, varda la gamba, che bela la gamba i s’è innamorati e iè scapacc ‘nsema. E La piasa l’è restada ché tala e quala.

L’ORCHESTRA
Fina a poc tep fa che en piasa, davanti al bar, ‘na olta ala setimana sunava l’orchestra.
L’orchestra… l’è ‘na parola grosa… dizom che sunava un’urchistrina, ‘soma iera en quater, a olte sic.
Ghera el capo, el Gipì, ch’el sunava la chitara e el cantaa. L’era un omasì da rider, grant quater palanche, ‘n po gobo, sòp d’ena gamba, “ferita di guerra” el disia lü, ma a dila töta, l’è dat zo da la pianta de brogne che l’era dre a robà n’del cap del Maëla. El Gipì l’era un gran cantante, ‘na us da “tenore basso”, quasi baritono, calda fess che ale fomne ghe tremaa en finamai la gamba, a balà, e… mia apena chela. Pörtrop, dizomela töta, el ghera mai i sunadur a la so altesa.
Giü el rincrisia perché i era vignicc sö grancc ensema, l’oter el valia negot, ma el ghera ‘na grant pasiù, l’oter l’era so cögnat…eehh che vulif fà!
El Pino Benel violinista di vocasione el gà mai stüdiat la müsica, poeret, ele ghera finit gna le scöle elementar per nà a fa el famei. El ghe saia mia le note, gli accordi e chele robe lé. La prima olta che el Gipì el gà dit: “Chesta la fom en Do”, lü el s’è vardat en giro el ga dit ” samai la fom en dù, me e te, de fomne en vede mia”.
Come se sa per sunaà el viulì bisogan postaga sö el barbos,(rivolto a una signora del pubblico) il mento, siura, la sala mia ch’el che l’è el barbos? E se che en de cera la par giöna che se n’entent de anatomia! ndo sere riat? Ah se, el barbos. Capitaa poerì quac volte che l’era strac de la zornada, ch’el se endormantaes, sintat zo,postat a la scagna, col co söl viulì!
E alura tocava al Sigismondo Pomarì, deto Mondino, a daga ‘na goiada col pè, ‘na pesada a la scagna, per fal desedà. El Mondino el sunava la Vaca, , siura, lé la me par acà ‘nteligente!, l’è mia ch’el ciapa el bovino e el ghe da zo le bastunade. Il contrabbasso! I la ciama la vaca perché quando i la suna co l’archet, quelli mica tanto bravi neh, vé föra un muggito.( se l’attore ne è capace può imitare il verso e il gesto dell’archetto)
El Mondino ghera mia pericol, perché lü el la suna coi dicc: tum tum tum…ah l’è brao, neh… ma el gà acà lü i sò problemi.
El gà la isiga cürta, come el dis lü.
Ghe toca cambiaga l’acqua al merlo, sö per zo, ogni mezura. E i è dolori quant el Gipù el se lancia a fà quater, sic cansù de fila e en piö i a ricama cole batüde e le barzelete… i è dolori, perché el poer Mondino el resiste el resiste, ma mia semper el ghe la fa. E alura, s’el vidì pasà fora abraciato al suo contrabasso, l’è mia perché l’è gilus del sò strument… emplicemente el s’è pisat ados! E quant  e l s’enrabia el siga ac! El tartaia, balbetta! (rivolto al pubblico) OH, ma oter el cunusì proprio mia el dialet!
N’do soi riat… ah se… E alura el ghe dis al Gipù, so amico d’infansia: “Te te t’el di dise s s s semper de de de mia tirala lo lo lon… ga!”
Giovanni Battista Scalcagnati, deto Titì, cugnat del Gipù, lè el baterista. El pica na casa, en tamburel e ‘n piat. Dizom che l’è lé perché apunto l’è el cugnat. La so sorela la gà pregat el Gipù: “Faga sunà ergot, tiremel vià de cà quac sere, senò ghe lo semper ados!”
Da fradel piö ècc,  l’è mia stat bù de diga de no ala so surilina.
Dizon la veretà: el Titì, quant al tep, l’è piö esperto de nigoi tompeste e cel seré, piötost che de tango e mazurca, ma l’è dré che l’empara, bisogna iga pasiensa. El problema l’è che lü el se nescors mai quant ‘na cansù l’è finida… el va avanti e tinc e tanc e pum e pera… finamai ch’el so cugnat el se gira e el la arda con dù occ de fiame. Alura el capiss, mia sübit, neh, e ‘l ghe dà el colpo finale. Un orchestra da ballo che tè alegra la piasa!

TORNO SUBITO
“Torno subito!” I la ciama cosé el barber, ch’el là, ‘n del cantù dela piasa. Ma el so scötöm l’è “Sciapì”.
El derf la botega ‘nvers le nöf, perché ‘l dis che i cavei se pöl mia taiai quant i è amó endomecc, agitacc per i sogni bei o bröcc, che te gabet ait l’incubo dele bolete che te curia dré o l’estasi dela Bellucci che te faa el fil, en töcc i casi, el dis lü, bisogna che i cavei i se distende prima de mitii a contato co le forbes.
Quant ch’el gà tirat sö la seranda, n’pisat la luce, sprusat el deodorante, mitit el cartel “Torno subito” el vé a beèr el cafè. El vé ché, el se varda ‘n giro, el saluda töcc, el serca el giornal, el taulì giöst e po’ el se senta zó. Apena el vèt vergü ch’el conos i a ‘nvida al so taulì e el dis: “Me bee en cafè, te che beèt?” I ciaciara del piö e del meno, i bef e a ‘n certo punto el varda l’oroloi, el lia sö agitat “Porca galina, gó la botega de derver!” E cosé ‘l lasa de pagà. La só masima l’è: “ Se sügherà el Ces e el Cizì, ma mai el portafoi de le Sciapì!”
El cartel el resta tacat de spes, perché lü l’è ‘mpegnat a ciciarà sota i portec, a cöntaghela sö a le fomne che pasa, a rumpiga le bale al vigile interista, a scambià col pustì le novità de còregn o de fughe, de falimencc e de disgrasie. Ogni quando, dizom mia ogni mort de vescof, ma quasi, ria ‘n client, ch’el gà da nà a sercal drè a le boteghe del piasa o al cafinì. L’oter dé el ma dit: “Ada, se fös mia perché gó pasiù per ch’el mester ché, a veder èl caset, gares zà ‘npiantat lé!”




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