domenica 19 aprile 2015

 

Caro Mauro,

di Pino Greco
sull’invito che mi hai mandato per “Qui tra le rocce e il cielo” (Gardaforum-Montichiari, 17 aprile, h 20.30) ho cliccato “forse“. Normali precauzioni da un po’ di tempo a questa parte

... Ma tu mi conosci. Farò di tutto per esserci.

Da qualche anno è diventato un evento cult ritrovarsi a onorare le performances del vostro gruppo, del vostro Teatro di Gavardo.
Che poi, detto così, fa un po’ di soggezione, ma a frequentarvi da vicino appaiono tranquillamente John, Deni, Peppino, il Luca e la Sara. E poi tu e Beatrice in platea, per le pubbliche relazioni.

Questa volta sulla locandina campeggia Deni, the voice. Il grande Andrea Giustacchini.
Immagino per il ruolo preminente affidatogli nella rappresentazione.
Da tempo ormai i vostri spettacoli esaltano le sinergie scaturite dall’amalgama di Peppino Coscarelli, alla regia, di John Comini, sceneggiatore, di Luca e Sara per gli inserti musicali e video.

Ma la luce, va detto, s’accende con la voce narrante.
Una voce intensa che asseconda le torsioni di un corpo scarno e vibrante. Un’intonazione in grado di modulare la meraviglia e lo sdegno, il paradosso e la bonaria ironia, la citazione dotta e lo slang dialettale. Il tutto per calamitare concentrazione ed emotività di un pubblico già predisposto in naturale sintonia con le storie narrate.

Mi è accaduto spesso di rilevare, confuso fra le panche degli alpini
in cappello d’ordinanza, il sussulto che trattiene la spontaneità di un applauso. Quello che scatterebbe per il pezzo di bravura, ma si frena per lo scrupolo di profanare la magia dell’atmosfera.
In ogni caso è palpabile la consonanza fra spettatori e interpreti. Le condivisioni di ideali e modelli di vita che attraverso due o tre generazioni sono rifluiti nell’idem sentire di un intero territorio. Quello valsabbino e bresciano in genere.

Protagonista è la guerra. La Grande Guerra.
La guerra dura di montagna. Quella della fatica, del gelo, della valanga, del cannone che rimbomba lontano.
Dopo cento anni si ritorna sui luoghi che ne sono stati teatro. Dopo un secolo è svaporato ogni trionfalismo ed anche il più esaltato patriottismo non potrebbe esimersi dal raggelante computo delle vittime (morti e invalidi) di quella che Pio XI definì “un’inutile strage”.

Sull’argomento la narrativa e i mass-media hanno prodotto un’infinità di pagine e immagini. Ma il tuo angolo di visuale, caro Mauro, risulta del tutto nuovo, anche se coerente col tuo status professionale e quella felice inclinazione amatoriale che ti ha portato, negli ultimi anni, a perlustrare vari itinerari di eventi bellici.

Partendo dai garibaldini fino alla ritirata di Russia
, passando per la I^ guerra mondiale. Il tutto attraverso scrupolose e defatiganti ricerche di archivio o, addirittura, sollecitando la memoria precaria di reduci e protagonisti dell’epoca.

Per “Del mio lungo silenzio“, matrice di “Qui tra le rocce e il cielo”, hai suggerito una chiave di lettura geniale e coinvolgente. Almeno per me che mi son dato da fare a leggere le bozze speditemi qualche tempo fa.

La formula è quella di dare voce ai caduti trascrivendo le loro parole da migliaia e migliaia di lettere e cartoline. Quelle depositate negli archivi di stato o custodite dalle famiglie. Senza censure o imbellettamenti.
La provenienza è quasi totalmente bresciana, ma con una particolarità che fa la differenza con analoghe pubblicazioni di epistolari.

Un folto gruppo (32 stud. e 1 prof) proviene all’archivio dei diplomati del Liceo Bagatta di Desenzano.
Giovani universitari, quindi, o appena laureati. Tutti, ovviamente, arruolati come ufficiali. Se si aggiunge che fra questi giovani il patriottismo e l’interventismo avevano trovato terreno propizio, si intuisce anche il divario ideologico, culturale, quasi antropologico che segnava le peculiarità delle diverse provenienze.

Ho notato che nell’accostare quelle esperienze
, quelle sensibilità difformi hai evitato di enfatizzarne i caratteri.
Hai lasciato al lettore il compito di rilevarli attraverso una lettura accurata e commossa.
Una lettura che forniva elementi essenziali per intuire quale sarebbe stata l’evoluzione (o l’involuzione) della società una volta terminata la guerra.
Con una massa prevalente di contadini, operai e artigiani, scarsi di istruzione e di cultura, e un ceto sovrastante di piccola borghesia oscillante fra le lusinghe di mutamenti sociali e il rassicurante ancoraggio in un conservatorismo tendente al reazionario.

Ora, fatto salvo il gap ortografico e lessicale, sono i contenuti che fanno la differenza.
Per esempio tra baldi bersaglieri... ”che mettiamo a repentaglio la vita con lo sguardo fisso alle piume che rappresentano la nostra bandiera, fiduciosi ascendiamo le irte montagne e passiamo le ridenti valli gridando – Sempre avanti Savoia-“ e l’artigliere disturbato dal fango e dai pidocchi che scrive più prosaicamente: “Termino di scrivere con la penna, ma questo dolore non passerà mai dal cuore, fino a che non sarò nella mia patria, cioè nella mia famiglia.”

Poi c’è l’ufficialetto infervorato per l’azione bellica e illanguidito dal desiderio per l’amore lontano: “All’alba, quando dovrò dare il primo comando di aprire il fuoco ti invierò il bacio più caldo che l’anima può desiderare.”
Ma questi spunti idilliaci si disperdono in un contesto da girone infernale: “In trincea si sentono solo lamentele, bestemmie contro il governo e contro i comandi, ostie continue contro la guerra e quelli che l’avevano voluta“.

La morte viene osservata attorno, ma i suoi effetti vengono sintetizzati alla maniera dannunziana: ”Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte“ oppure secondo l’immaginazione affievolita del fante, stropicciato reduce da Caporetto: “Mi hanno rapito molti compagni attorno di me. Credo che un Supremo cié.
Ma c’è anche il tenentino socialista, interventista per propugnare giustizia e riscatto sociale, che proclama: ”non morrò da codardo, mostrerò impavido il petto al nemico, come sanno fare gli italiani“.

I dialoghi coi propri cari tendono alla concretezza: “Scrivimi, sapresti come mi è di sollievo le tue cartoline“, o ancora più sbrigativo: “Cara mamma, al presente non mi hocore niente“.

Infine balenano certi ricordi strani, per lo più cancellati dai libri di testo.
Si accenna a certe comunelle da trincea a trincea, in piedi, a scambiarsi saluti e auguri per le feste canoniche del popolo dei credenti. Distribuito di qua e di là.

Immagino già la concitazione del Deni e il fremito del pubblico assiepato.

Brescia 16 aprile 2015
PINO GRECO
17 Aprile 2015, 07.18
Gavardo
Teatro

Qui tra le rocce e il cielo

di Redazione
Verrà rappresentato al Gardaforum di Montichiari questo venerdì sera e nel Salone Pio XI di Gavardo sabato 18, lo spettacolo tratto dal libro di Maurizio Abastanotti "Del mio lungo silenzio"

"Qui tra le rocce e il cielo" è una performance del Teatro Gavardo, con l'attore Andrea Giustacchini, un testo di John Comini liberamente tratto dal libro di Maurizio Abastanotti “Del mio lungo silenzio”, le musiche originali di Luca Lombardi, un video di Sara Ragnoli e la regia di Peppino Coscarelli.

Dopo le  70 repliche de “La guerra negli occhi” tratto dal libro (giunto alla terza edizione) “A chi dimanda di me” di Mauro Abastanotti (Liberedizioni), Andrea Giustacchini torna a raccontare la storia dei nostri soldati in quella catastrofe che fu la Grande Guerra.

Il racconto percorre tutti gli anni della guerra, da quando l’Italia era neutrale (1914) all’entrata in guerra, fino alla vittoria finale ed al ritorno a casa.
Il protagonista della vicenda è un ragazzo delle nostre valli, che abita in un piccolo paese, lavora nei campi ed è innamorato di una ragazza.
Quando viene arruolato nel Corpo degli Alpini, si trova in poco tempo a combattere la guerra in montagna: ogni cima, ogni ghiacciaio, ogni crepaccio, ogni roccia, sono una sfida assoluta: freddo intenso, fatiche inenarrabili, condizioni penose.

I nostri alpini, caricati fino al limite delle forze, con marce di 15 ore, attraversano ghiacciai e salgono fino a quote di oltre 3000 metri, portando la paglia per dormire.
Il traino di un enorme cannone, la costruzione di gallerie nel ghiaccio, l’arrampicarsi sui ripidi canaloni della dorsale rocciosa, anche con scale, tra passerelle di corde sul vuoto, sotto il rombo dei cannoni e delle mitragliatrici degli austriaci in posizione più alta, dormendo all’addiaccio.

Stare di guardia sulle vette, per di più mal ricoperti, è uno dei più duri sacrifici, soprattutto di notte e nelle albe gelide per la tormenta; quando i sensi sembrano impazzire davanti al vuoto e lo sguardo sembra non trovare un punto su cui posarsi…C’è  poi l’insidia delle valanghe che in un attimo ti travolgono e ti seppelliscono.
Il nostro protagonista diventa innocente testimone della tragedia della guerra, combattuta con il sangue di tanti piccoli grandi uomini come lui.

Attraverso le toccanti parole del protagonista, che racconta la verità umana della guerra, il pubblico è immerso in una storia  in cui a momenti lancinanti si affiancano episodi di toccante umanità e anche di sano umorismo. 

Lo spettacolo è liberamente ispirato al libro di Maurizio Abastanotti “Del mio lungo silenzio” (Liberedizioni), ma con rimandi a Lussu, Gadda, Ungaretti e a Remarque (l’autore di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”).

Ingresso libero.
VALLESABBIANEWS 

sabato 11 aprile 2015

l'ultima fatica, per ora...
DEL MIO LUNGO SILENZIO
Studenti e contadini alla Grande guerra 1915­ - 1918
Liberedizioni, 2015

Dopo il successo di "A chi dimanda di me", alla sua quarta ristampa, il nuovo libro di Maurizio Abastanotti torna a raccontare la Prima Guerra Mondiale. Utilizza le parole dei protagonisti per lo più bresciani, tratte da documenti in gran parte inediti, spesso sorprendenti.   La nuova sfida è mettere a confronto il punto di vista degli studenti con quello dei  contadini. Quest'ultimi in misura prevalente neutralisti, dediti al lavoro nei campi e occupati a soddisfare i bisogni primari delle loro famiglie. Gli altri, studenti liceali, universitari o professionisti, istruiti ed esposti, in quanto lettori di giornali, alla propaganda interventista. Gli ufficiali erano obbedienti alle indicazioni di autocensura delle circolari del Comando Supremo, che era ossessionato dal Fonte interno. Si temeva che, se si fosse raccontata la cruda verità dei campi di battaglia, la popolazione avrebbe osteggiato ancora di più il proseguimento della guerra, si sarebbero raccolti meno fondi a sostegno dello sforzo bellico. I soldati non avevano queste remore. Appena possibile, evitando la censura con vari stratagemmi, raccontavano ai famigliari la loro triste realtà, spesso con nitida durezza.

L'autore accosta i documenti in un coinvolgente racconto, commentandoli ma evitando, per quanto possibile, di esprimere giudizi. Lascia al lettore il piacere di un nuovo viaggio nelle parole centenarie, sperando di suscitare lo stesso interesse e il  medesimo coinvolgimento emotivo che lo hanno spinto a portare a termine questo lavoro.