Stava gustando intensamente gli aromi di
una miscela di Virginia Burley e Kentucky che aveva composto pochi giorni
prima, curioso di sperimentare nuove sensazioni. Aspirava da una vecchia Royal Dutch, una splendida pipa di
radica, fornello basso e tondo e bocchino corto e ricurvo che teneva, tra le
sue preferite, per i momenti di assoluto relax. Nell’aria la voce del vecchio
Bo Diddley e il suono della sua mitica Cigar
box.
Per evitare fastidiose interruzioni del
rito aveva lasciato lo smartphone nel corridoio, lontano dalla poltrona nella
quale era sprofondato. Per questo non aveva sentito il segnale del messaggio e
erano trascorse alcune decine di minuti prima che ne vedesse l’icona e ne
leggesse il contenuto. Laconico: “Devo parlarti con una certa urgenza”. Due
particolari lo avevano subito colpito: il contenuto un po’ ansioso e ansiogeno
ma soprattutto il fatto che il mittente fosse un collega molto noto, un Maestro,
che aveva incontrato poche volte, con il quale aveva scambiato solo rare
battute o poco più di un saluto a margine di performances o workshop. Si
sentì lusingato per l’implicita confidenza e curioso di conoscere i motivi
della sottolineata urgenza.
Cercò il suo nome nella rubrica e lo richiamò.
- Domattina devo tenere un team building
percussivo in una grossa azienda di Milano. Non me la sento di farlo da solo,
ma il mio socio abituale, lo ricordi, vero? Si è ammalato, potresti
sostituirlo? Lo so… all'ultimo momento … non voglio metterti in difficoltà.
- Io… mah… non so se sono in grado…
- Non dire sciocchezze! Sei molto bravo. Ti ho visto all’opera, come
interagisci, la tua energia… non ho dubbi! Mi farai fare un’ottima figura.
Domattina ore 7.00 al binario 1. Camicia bianca con papillon e pantaloni neri, ça va sans dire.
Ah! Naturalmente scarpe, non i soliti ciabattoni, lo so che ti chiedo un grosso
sacrificio, ma qui siamo al top!
Un attimo di silenzio.
- Va bene, ti ringrazio per la fiducia. E gli strumenti?
- Li ho già fatti recapitare sul posto e collocati nella sala, non
preoccuparti, li troveremo pronti all’uso. A domani!
Asciutto, diretto e, in qualche modo, perentorio: i primi due aggettivi
li trovò consoni al suo immaginario, il terzo, sinceramente, un po’ fastidioso.
Ma, tant'è, l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Non era il
caso di essere troppo suscettibili.
Cominciò a far mente locale sull'abbigliamento, ma l’immagine di sé in
abito elegante lo fece sorridere: non indossava abiti civili da un secolo, solo tute da lavoro, maglie e magliette
stinte.
Dunque… i pantaloni neri… facile! Ne aveva acquistato un paio l’anno
prima per partecipare ad una pièce di
teatro sperimentale con musica e danza, stressato da un amico che lo voleva a
tutti i costi sul palco. Aveva interpretato la parte di un intellettuale
parigino della Rive gauche con tanto
di dolcevita, anch’essa nera. Come aveva richiesto la sua parte consisteva in
monosillabi e gesti. Non amava la sua voce e soprattutto la pronuncia
fortemente segnata da inflessioni dialettali.
- Pantaloni a posto! - pensò – sono qui, nella casa in città. E il
papillon?
Ah, sì, quello l’aveva conservato dai tempi nei quali aveva fatto il
cameriere al Grand Hotel sul lago.
- Insieme alla piccola cravatta ci dev’essere una camicia bianca!
Salì sull’auto e si diresse verso la casa dei genitori, quaranta
chilometri a sud est. La mamma aveva sicuramente custodito l’abito delle sue
esperienze giovanili nella ristorazione.
Il traffico era scorrevole e giunse a destinazione abbastanza in
fretta. Suonò il campanello, più volte, ma nessuno rispose.
- Maledizione! Proprio oggi!
Si sedette, deluso, frustrato, sul muretto e gli venne una tale rabbia
in corpo che avrebbe pianto se non gli fosse balenato un ricordo: suo padre
nascondeva un paio di chiavi in un buco del muro di cinta tappato con un sasso,
sul retro del giardino, per le emergenze. E questa lo era, senza dubbio. Bravo
papà!
Trovò il mazzo delle chiavi e finalmente riuscì ad entrare. Nella
cameretta che aveva occupato prima di traferirsi in città c’era ancora il suo
armadio. In un cassetto trovò il papillon e, come previsto, anche la camicia
bianca. Gli bastò un’occhiata per rendersi conto che gli sarebbe andata a
pennello una ventina di chili prima. Infatti le braccia entravano a fatica
nelle maniche, il collo era stretto e bottoni e asole rimanevano distanti
almeno una decina di centimetri.
Era necessario inventarsi qualcosa. Il pomeriggio avanzato richiedeva
soluzioni rapide.
Considerato che si trovava al paese telefonò a un suo caro amico, che
abitava in campagna a un paio di chilometri dall’abitato.
- Certamente! Vieni qui, ho una bella camicia bianca, l’ho comprata per
andare a nozze di mio cugino.
- Grazie!
Via di corsa sulla strada sterrata che portava alla fattoria.
Quella del suo amico era davvero una bellissima camicia, ma tra asole e
bottoni, anche in questo caso, c’era incomunicabilità.
- Mi spiace, è l’unica che ho… te l’avrei prestata volentieri. In effetti
ti sei irrobustito mica male negli ultimi anni!
Che fare a questo punto? Erano già le sei di sera e non aveva ancora
risolto il problema.
Avrebbe potuto acquistarla nel negozio lì in paese ma sapeva, per
sentito dire della madre e della sorella, che i prezzi erano piuttosto alti.
- Nel mio spazio della moda tengo solo capi di una certa classe, quelli
dozzinali li potete comprare anche sul mercato o nei supermercati cinesi, pare
abbia detto in più di un’occasione la signora Delia.
Gli spiaceva investire tanto denaro per una camicia bianca che non
avrebbe più indossato in seguito, forse.
Risalito sull'auto, la diresse perciò verso il paese vicino dove c’era un
negozio, quasi un centro commerciale, gestito appunto da cinesi. Trovò la
camicia della sua misura e la pagò pochi soldi, come previsto. Poteva,
tuttavia, presentarsi con tutte quelle pieghe della confezione?
Doveva essere stirata. Sua madre non era ancora tornata, non sapeva
dove mettesse il ferro da stiro per far da sé e dunque si ripresentò alla porta
della fattoria.
- Dovrei chiedere un favore alla tua mamma… se può prestarmi il ferro
da stiro…
La signora fu felice di rendersi utile stirando lei stessa la camicia e
volle che fermasse anche a cena.
- Sono le sette e mezza, ormai, dove vai a quest’ora? Prima che arrivi
in città è già ora di andare a letto!
Tornò in città, felice per aver risolto il problema e per la cena
squisita.
Il mattino seguente, puntuale, incontrò il Maestro sulla banchina del
binario e presero il treno veloce per Milano. Il taxi li portò alla sede
dell’azienda. Un palazzo di vetro e acciaio imponente nello skyline della metropoli. Al quindicesimo
piano li accolse una segretaria gentilissima, ma assertiva. Occhiali a occhi di
gatto di tartaruga, tailleur nero, camicetta bianca con il collo alto e il
papillon. Notò con sorpresa che indossava un paio di ballerine di vernice,
anziché i soliti tacchi a spillo.
Li accompagnò in una saletta.
- Vi prego di attendere qui. I dipendenti interessati al vostro
incontro stanno salendo alla spicciolata, quando saremo tutti pronti verrò a
chiamarvi.
Appena la porta si chiuse dietro quella nuvola di J’adore, si tolsero le giacche e iniziarono a controllare, in uno
specchio grande come la parete, che la camicia non si fosse stazzonata durante
il viaggio e a ripristinare la simmetria del papillon con il collo.
Dopo qualche minuto la segretaria rientrò con un busta di carta.
- Siamo quasi pronti. Intanto, per favore, toglietevi le camicie e
indossate le magliette con il logo dell’azienda.
Prima di scomparire nuovamente dietro la porta, si voltò con un
sorriso.
- Grazie, vi aspetto nel salone.