venerdì 17 novembre 2017

Ho riletto il lavoro che abbiamo fatto con Beatrice nel 2014.


Premessa
Non abbiamo vissuto come i bruti.
Non ci siamo richiusi nel nostro egoismo.
La fame, la sporcizia, il freddo, le malattie,
la disperata nostalgia delle nostre mamme e dei nostri figli,
il cupo dolore per l’infelicità della nostra terra non ci hanno sconfitti.
Non abbiamo dimenticato mai di essere uomini civili,
con un passato e un avvenire.
Giovanni Guareschi
Anche Giovannino Guareschi, l’indimenticabile creatore di perso­naggi come Don Camillo e Peppone, fu uno dei 716.000 italiani deportati dopo l’8 settembre 1943 nei lager tedeschi. Le condizioni dei militari italiani nei lager furono eccezionalmente crudeli: privati della qualifica di “prigio­nieri di guerra” in quanto considerati dai nazisti come dei traditori, e classi­ficati “Internati Militari Italiani (IMI)”, non potevano beneficiare della pro­tezione della Convenzione di Ginevra né essere assistiti dalla Croce Rossa: gli unici generi di conforto erano i pacchi inviati dalle famiglie.
Il regime nazista offrì la liberazione dai campi di prigionia e il rinvio in Ita­lia a quei prigionieri italiani che si fossero arruolati nelle forze armate della Repubblica Sociale. La propaganda degli “arruolatori”, ufficiali italiani in­viati dal Comando dell’Esercito repubblichino, fu pressante. Una minima quota di prigionieri aderì alla proposta (per poi in molti casi unirsi alle formazioni partigiane dopo il rientro in Italia1), ripetuta e incessante dal momento della cattura fino ai primi mesi del 1944, quando gli Imi avevano già fatto l’esperienza del durissimo inverno 1943 nei lager.
Il fatto che la stragrande maggioranza degli Imi, soldati e ufficiali rifiutò di aderire alla Rsi costituì un disconoscimento di massa di altissimo valore civile e politico. Rimanendo nei campi, restava l’amara consapevolezza che con una semplice firma si sarebbe potuto evitare, oltre alle sofferenze mo­rali e fisiche, il prevedibile rischio di morire (circa 40.000- 50.000 internati pagarono con la vita il loro rifiuto, altri, a causa delle sofferenze e della denutrizione, contrassero malattie e invalidità che, dopo la liberazione, li costrinsero a lunghi soggiorni in ospedali e convalescenziari o li condus
sero a morte). Quella degli Imi che non cedettero alla propaganda fascista fu una Resistenza senza armi, ma altrettanto importante, dal punto di vista simbolico, di quella armata che agiva in Italia. Sulla situazione degli I.M.I. così si era espresso, fin dal 27 marzo 1944, il Comitato di Liberazione Na­zionale Alta Italia:
«Il C.L.N.A.I., a notizia del selvaggio trattamento al quale vengono sot­toposti, da parte degli aguzzini nazisti, gli ufficiali ed i soldati italiani internati nei campi di concentramento in Polonia che si sono rifiutati di prestare servizio nelle organizzazioni militari e civili tedesche; esprime a questi coraggiosi - che pur brutalizzati e seviziati in tutti i modi, in una suprema affermazione di dignità e di fierezza, hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico - la sua solidarietà e l’ammi­razione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo; denuncia i responsabili dei delitti e delle atrocità affinché siano, a suo tempo, giudicati e giusti­ziati come criminali di guerra».
La Repubblica Italiana, dopo anni di colpevole oblio, ha conferito il 19 novembre 1997 la Medaglia d’Oro al Valor Militare all’ “Internato Igno­to” con la seguente motivazione:
«Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele all’onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di sten­ti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe ri­acquistato la propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui valore ancora oggi è esempio di redenzione per l’Italia».
Inoltre nel 2000 è stato riconosciuto il 27 gennaio (data dell’abbatti­mento dei cancelli di Auschwitz) come il “Giorno della Memoria” in ricor­do dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti,
«in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere».
Infine, con Legge n. 296/2006 è stata concessa una medaglia d’onore ai cittadini italiani (militari e civili) che nell’ultimo conflitto mondiale furo­no deportati e internati nei lager nazisti.
Giuseppe Giacobinelli partecipò a questo movimento di Resistenza ai na­zifascisti dal giorno del suo arresto, il 16 settembre 1943, fino alla fine della sua prigionia. Il suo rifiuto fu soprattutto motivato dalla fedeltà al giura­mento che aveva fatto al Re prima da soldato e poi da ufficiale, ma determi­nante fu anche il disprezzo verso il Fascismo che egli definì
«Un sistema disonesto e disonorante per una nazione da un passato cristallino e trasparente. 28 ottobre2 lutto nazionale per la nostra cara Patria oggi in balia di tutti e con la sua gente migliore in mano dell’al­leato di ieri e che oggi ci tratta in modo indegno[...]3».
Le tappe della prigionia
All’inizio del quarto quaderno del suo Diario, gelosamente custo­dito e fortunosamente conservato attraverso tutti i trasferimenti, salvato con astuzia dalle rischiose perquisizioni, Giuseppe Giacobinelli riassume le tappe della sua prigionia in uno schema. Riportiamo fedelmente quanto scritto da lui stesso:
Le tappe del Calvario
9 sett. 943: Armistizio
11 sett.: Faccio rompere le righe ai miei Alpini
12 sett. 943: Pongo in libertà gli Ufficiali
13 - 14 sett.: arrivano truppe tedesche
16 sett. Belluno - S. Candido
17 sett. S. Candido - Lienz
18 - 22 sett. 943. Lienz - campo di Kustrin
27 - 29 sett. 943. Kustrin - campo di Deblin
26 nov. 943. Deblin - Deblin Triangolo
1944
17 -20 gennaio. Deblin - Tschestochau
9 - agosto. Tschestochau - Norimberga.
1945
29 genn. - 1° febb. Norimberga - Lichterfeld sud (Berlino)
14 - 19 febb. Lichterfeld - Altengrabow
4 maggio. Liberazione
8 - 9 maggio. Altengrabow - Belzig
29 maggio. Belzig - Strauberg
27 luglio. Strausberg - Bucow
L’elenco si ferma qui, ma da Buckow, quartiere meridionale di Berlino, ri­parte solamente un mese dopo, il 28 di agosto, con un viaggio, ça va sans dire, su carri bestiame. Arriva a Trento il 4 settembre, dove trova ad atten­derlo un Comitato di accoglienza di Belluno. Qui riabbraccerà finalmente la sua adorata Tucci.
Perché segreti
Ci siamo chiesti perché il Genera­le avesse tenuto segreti i suoi diari senza pubblicarli. Aveva salvato quei quaderni da innumerevoli e rischiose perquisizio­ni, li aveva conservati con grande cura durante i trasferimenti da un lager all’al­tro. Perché non pubblicarne il contenuto? Le tre ragioni principali si possono de­durre dai diari stessi e dalle testimonian­ze di persone a lui vicine che hanno con­servato gelosamente i manoscritti dopo la sua morte. Non lo ha fatto nemmeno in estratto, al ritorno dalla prigionia, no­nostante avesse espresso tale proposito già all’inizio del primo quaderno. Date le condizioni del contesto politico-sociale del secondo dopoguerra, ritenne sicura­mente di attendere un clima più disteso e meno conflittuale.
La vittoria della Repubblica nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946 lo aveva profondamente deluso e amareggiato. Nel suo diario la difesa del­la monarchia e l’esaltazione del ruolo storico di Casa Savoia sono ovunque presenti: non dimentica mai i compleanni del Re e della Regina, condivide la lettura della Storia cara ai monarchi e conferma ad ogni passo la fedeltà senza riserve al suo giuramento da soldato e poi da ufficiale del Regio Eser­cito. La sua concezione politica ispirata ad liberalismo conservatore, la sua formazione nazionalista di stampo risorgimentale, la sua cultura letteraria influenzata dal romanticismo ottocentesco non gli concedono strumenti per analisi critiche sull’operato dei Savoia. Un altro elemento, forse quello più determinante per un uomo della sua statura morale, fu la consapevolezza che la sua vicenda di internato, le umiliazioni subite, il freddo, la fame, la mancanza di igiene non erano nulla al confronto con quanto aveva vissuto la maggioranza delle altre centinaia di migliaia di uomini che, come lui, erano stati caricati sui carri bestiame all’indomani dell’8 settembre ‘43. Si era reso conto fin dal rimpatrio che le sue sofferenze non erano nemme­no paragonabili, in molti casi, a quelle subite dai suoi stessi Alpini. Si era sentito un privilegiato davanti alle larve umane che scendevano dai treni provenienti dal nord.
Il terzo elemento che lo frenò nella divulgazione anche tardiva dei diari fu, presumibilmente, l’imbarazzo per le espressioni di odio nei confronti dei Tedeschi (ma gli scritti non esimono nemmeno i Francesi). Espressioni che stridevano fortemente con il clima politico e culturale del secondo dopo­guerra, teso a costruire una pace solida e duratura tra i paesi europei e ad evitare gli errori seguiti al primo conflitto mondiale.
La costruzione del Mercato Comune e le tappe verso un Unione europea non erano compatibili con alcune frasi contenute nei diari e soprattutto con il titolo ch’egli avrebbe voluto in caso di pubblicazione (Perché dobbiamo odiare i Tedeschi). Giuseppe stesso, d’altra parte, per il suo carattere aperto e gioviale, per le sue caratteristiche di uomo di mondo, che aveva viaggiato in gioventù per tutta Europa, aveva superato con il passare del tempo l’av­versione reattiva nei confronti dei suoi ex-carcerieri. Agli inizi degli anni ‘70 fu parte attiva, con gli Alpini gavardesi, nel gemellaggio tra Gavardo e Weiden - Löwenich, quartieri orientali della città tedesca di Colonia. Dopo la sua morte i quattro quaderni segreti del Generale Giacobinelli hanno ri­schiato di andare perduti, data la numerosità e la eterogeneità degli eredi. E’ stata la determinazione delle nipoti Rina e Cecilia e della pronipote Clara a salvarli fino alla pubblicazione.
Perché pubblicarli ora?
A settanta anni di distanza questi scritti costituiscono un documento di rilievo storico per vari motivi. I diari di prigionia di ufficiali superiori fino­ra pubblicati non sono molti.4 Giuseppe scrive quotidianamente, senza man­care un giorno, anche dopo la fine della prigionia, dal maggio al settembre ‘45 sino al giorno del rimpatrio. I diari non sono stati revisionati, né riveduti dall’autore che li ha conservati così come sono stati scritti, a caldo, nel corso dell’esperienza di internamento.
Se fossero stati pubblicati in precedenza il rischio di una lettura mediata da filtri ideologici sarebbe stata maggiore di quella attuale. Oggi ci è consentito leggere queste pagine con la “giusta distanza” che permette di guardare alla vi­cenda umana di Giuseppe Giacobinelli senza pregiudizi e ascoltare il racconto di una esperienza che ha segnato la sua vita e quella degli altri ottocentomila internati e che ha generato, in seguito, scelte individuali e collettive determi­nanti per la nascita e l’evoluzione della democrazia in Italia.5
Chi era Giuseppe Giacobinelli
«Tracciare un profilo dello scomparso è impresa ardua date le molteplici attività da lui espletate con entusiasmo e dinamismo suscitando intorno a sé stima e naturale simpatia».
Così scriveva il corrispondente del Giornale di Brescia il giorno dei suoi funerali.6
El colonel come molti suoi concittadini continuavano a chiamarlo anche dopo la promozione a Generale della Riserva, era dotato di una forte perso­nalità che lo faceva emergere in qualsiasi ambiente si muovesse.
Ragazzo cresciuto in fretta agli albori del Secolo breve, primogenito dei cin­que figli di Terzio, fin da bambino mostrò un carattere avventuroso e intra­prendente. Racconta la nipote Mariangela:
«Era un bambino delle Elementari... un pomeriggio, prima dell’apertura della scuola, lui e un suo amico salirono sul campanile della Chiesa per prendere i piccoli passerotti da un nido; dovevano rientrare in classe e non sapendo dove mettere i passerotti, li misero nel giubbetto. Ad un tratto nel silenzio della classe si sentirono i pigolii degli uccellini, il mae­stro fissò tutti i ragazzi perché non capiva, poi i colpevoli furono sgridati e il fatto servì da lezione ‘si devono rispettare gli animali’...».
Dopo la licenza elementare aveva iniziato a lavorare come commesso in un negozio, ma il piccolo e angusto mondo del paese natio gli andava molto stretto. Scrive nel suo diario: “...pensavo alla mia giovinezza tanto avventurosa, ero stato proprio uno scavezzacollo!” Giuseppe se n’era andato da casa in gio­vanissima età (tra i quindici e i diciassette anni secondo le varie fonti orali) e si era imbarcato a Napoli come mozzo sulle navi che facevano rotta verso l’Inghilterra. Le esili tracce documentarie lo indicano residente a Londra fino al 1911, l’anno successivo a Zurigo. Racconta ancora Mariangela:
«...di ritorno da uno dei suoi viaggi portò un paio di pattini a rotel­le, novità assoluta allora. Di corsa partì dal Bostone con gli schettini ai piedi; era giorno di mercato, la gente spaventata e meravigliata si chiedeva cosa avesse ai piedi quel ragazzo per correre così veloce­mente!»
Comincia, nel settembre del 1912 la sua carriera militare, carat­terizzata, fin dall’inizio, da un forte spirito d’iniziativa e da una dedi­zione senza riserve. Con la sola li­cenza elementare, senza aver fre­quentato l’Accademia Militare, in soli tredici anni scala la gerarchia da soldato semplice a capitano. È Colonnello Comandante del 7° Reggimento degli Alpini quando la sua carriera è interrotta dall’ar­resto e dalla successiva prigionia in Polonia e in Germania.
Fedele al giuramento fatto al Re, non accetta di giurare fedeltà alla neonata Repubblica: è col­locato a riposo nell’aprile del 1946.
Anita
Ho sempre qui presente la sera della separazione con mia moglie. L’ho vi­sta e la vedo ancora disperata dal dolore; il suo viso era irriconoscibile; durante le lunghissime giornate di viaggio in carro bestiame ho sempre pensato a quel povero e amato viso profondamente segnato dalla pena e dal dolore e che ancora una volta mi testimoniava tutto l’amore e la dedizione assoluta che mi ha sempre portato. Sei eroica mia cara Anita e io non sono degno di te.
La figura centrale della sua vita fu sicuramente Anita Vergnano, la moglie. L’aveva conosciuta a Torino e, dicono alcune fonti, avvicinata per gioco. Dimenticò presto il motivo dell’approccio, perché si innamorò perdutamente, ricambiato, di quella donnina minuta, ma determinata, vi­vace e sportiva. Oltre alla predilezione per le sigarette di buona qualità, condividevano la passione per lo sport e per la montagna. Frequentavano spes­so le piste sciistiche d’inverno e i sentieri impervi durante l’estate. Amavano la vita brillante delle feste danzanti e delle tavole imbandite.
Non ebbero figli ed è anche per questo che Giuseppe mantenne un rapporto di grande affetto con i numerosi nipoti.
Il dopoguerra
Dopo il suo congedo egli fu so­stenitore o animatore in molteplici realtà associative e istituzionali a Gavardo, dal Consiglio Comunale, alla presidenza del­la Scuola Materna, al Gruppo della Mon­tagna, al Tiro a segno. A quest’ultima atti­vità sportiva dedicò molte energie. La ri­nascita della Sezione locale nel si deve in gran parte al suo appassionato e generoso sostegno, anche finanziario. Grazie al suo appoggio un gio­vanissimo tiratore gavardese, Carlo Vezzoni, dopo aver vinto sei volte quello italiano, partecipò al Cam­pionato europeo di Budapest ed infine alle Olimpia­di di Roma del 1960. Firmava con lo pseudonimo L’Alpino Giaco le frequenti missive, lettere, biglietti intestati che inviava agli Alpini attraverso il suo più stretto collaboratore, Isidoro Codenotti, reduce da Nikolajewka, storico Capogruppo di Gavardo. L’As­sociazione degli Alpini sia nel Gruppo di Gavardo, sia nella Sezione Montesuello, era sempre al centro delle sue attenzioni. Alla sua generosità si deve, per esempio, la costruzione della Chiesetta degli Alpini sul Monte Tesio, ma non mancava mai di dare il suo prodigo contributo ad ogni iniziativa benefica e di solidarietà.7 L’amore per la musica, che aveva con­diviso con Anita, era continuata anche dopo la sua scomparsa. Alla Fanfara Alpina, che egli seguì con grande entusiasmo, dedicò tempo e risorse, incoraggiando soprattutto il ta­lento dei giovani musicisti. L’ultimo appello: 7.30 del mattino, il 20 maggio 1973.
Un austero masso di granito del “suo” Adamello lo ricorda nella piazzetta davanti alla Scuola dell’Infanzia “G. Quarena” di Gavardo.
m. a.
Nota a margine
Mi sono avvicinata a questi scritti, confesso, con un atteggiamento forte­mente pregiudiziale. La figura del Generale, nella mia memoria, è sempre apparsa retorica e marcatamente militarista. Nonostante in alcuni passaggi del diario que­ste mie opinioni siano state confermate, ho potuto constatare, pagina dopo pagina, la sua grandezza d’animo e la sua sconfinata generosità.
L’aspetto che più colpisce è il rispetto profondo per le donne che emerge so­prattutto, nella parte finale del suo racconto, nella descrizione dello sfacelo morale dopo la fine della prigionia. Il rapporto con la sua “Tucci”, la moglie Anita, che appare in quasi tutte le pagine dei quaderni, d’altra parte, è talmente intenso da farne la figura ispiratrice, la fonte di speranza, il movente per superare le sofferenze e le difficoltà. La ragione per tornare, ad ogni costo. Lei, donna emancipata, auto­noma, intraprendente, trova costantemente le risorse per inviare pacchi di viveri, abbigliamento e l’immancabile tabacco nei vari lager dove Giuseppe è prigioniero. Per farlo, mobilita tutta la famiglia e i molti conoscenti: a Gavardo, a Sanremo, a Belluno e a Torino.
Nei suoi scritti, Giuseppe si rivela fine psicologo e abile ritrattista: descrive i personaggi che vivono intorno a lui e ne delinea le caratteristiche fisiche e ca­ratteriali con sensibilità e arguzia. È in grado di analizzare in profondità anche i suoi stessi stati d’animo. Trova sempre soluzioni estemporanee per non cadere in depressione con la stessa ingegnosità creativa che applica quotidianamente nell’af­frontare i problemi pratici.
La sua onestà intellettuale, lo porta spesso a trovarsi in situazioni dove pec­ca di ingenuità. Soffre moltissimo quando scopre che alcuni compagni di prigionia abusano della sua buona fede. Empatizza con i più sfortunati, come i prigionieri russi. Sostiene e conforta coloro che non hanno capacità adattive e poche risorse intellettuali per far fronte alle dure necessità quotidiane e soprattutto, quando è in gioco la stessa sopravvivenza.
Un piccolo grande uomo.
Beatrice Meloni



domenica 5 novembre 2017

Serata emozionante ieri sera a Nuvolento. Grande interpretazione di Andrea Giustacchini sul testo della "Guerra negli occhi" di John Comini. Il coro Erica di Paitone ha eseguito i canti a tema con raffinata precisione. Grazie a tutti.


mercoledì 1 novembre 2017

SABATO 4 NOVEMBRE ore 20.45
NUVOLENTO - SALA POLIVALENTE

Andrea Giustacchini in
LA GUERRA NEGLI OCCHI
(83^ replica)

Testo e regia di John Comini
Collaborazione tecnica di Luca Lombardi e Peppino Coscarelli

giovedì 26 ottobre 2017

VERSI VERSETTI E VERSACCI

Ho ritrovato alcune cose che avevo scritto tempo fa.

In Italiano

Prima che diventassero il testo di una canzone dei VIZI DARTE (La strada tra Rimini e qui, 2001), avevo scritto questi versi:

La strada tra qui e Rimini

Come la strada tra qui e Rimini
l’odor di canali e d’asfalto
di strade neglette di notte
mentre il motore non fa che cantare
una sola nota in armonia
con i pensieri che vanno verso il mare
ed è già sale il sapore del vento.

Come la strada tra qui e Rimini
quei due alla finestra cosa fanno?
Credevano forse d’essere soli
mentre noi sotto a bere qualcosa
se poi si sono accorti di noi
se hanno spento la luce, peccato!
Era senza rumori solo poesia.

Come la strada tra qui e Rimini
luci di bar, sudore e tabacco
odor di frenate, sesso in offerta
premi piano, non forzare, già lo so
che ti fa gola  annusare le avventure
ma c’è altro che ci aspetta là,
dove  l’aurora è più vicina.

Come la strada tra qui e Rimini
due finestre, un lampo azzurro chiaro
l’aria che punge il viso e le mani
annuncia il sole che sorge dal mare
il pigro profumo di notte passata
il primo caffè non sono  traguardo
la nostra mente è già nella corsa

sulla strada tra Rimini e qui.

Before the trip

Sibila come pietra sulla lama
nel profumo del falciato
sdrucciola come ruote sull’asfalto
come un brivido bagnato
il pensiero che tu vada via da me.
Sto guardando nei tuoi occhi,
così profondi, così forti
penso al tempo che non hai
per restare qui con me.
Penso a quanto amore sei
al coraggio che sai dare
dentro il viaggio che s’inizia:
questo nostro allegro amore
meritava tempo in più.
Ma tant’è, è quasi l’ora
la vorrei comunque intera,
piena densa di ogni cosa vuoi,
la più pura, la più sporca,
la più bella, la più brutta...
ogni cosa che viva, esista
ché, anche se non lo diciamo
il tuo viaggio è già presente
ma che tu debba o meno andare
non ci deve togliere niente
non ci deve far pensare
solo amare, solo amare
giocare, ridere, gridare,
solo amare, solo amare.

Senza me
Guardi, ridi, forse piangi
mentre io non sono con te
sto aspettando il tuo ritorno
per sentire i tuoi racconti
e le storie che hai vissuto.
Leggerò dentro ai tuoi occhi
le passioni, le emozioni
le scoperte e le paure
i tuoi sogni dentro i sogni
che diventeranno i miei.
Sto aspettando il tuo ritorno
come fosse il primo giorno
per sentire i passi tuoi
per sentirti adesa a me
perchè è questa l’emozione
che mi colpirà di più.

JAIPUR

Il lento canto del cuculo
batte nell’aria del mattino
un ritmo soffice di pioggia.
Lungo le ore  che
rapide scendono a sera
travolgendoti  dolcemente
nella fatica del vivere
del pensare , del farti carico
dell’arrabbiarti ancora,
del perdere del ritrovare
trova un momento per farlo...
Cerca mani vissute, ossute,
forti di spezie e d’aromi
cerca, paziente, occhi di cielo
di foresta e duri legni
di nuvole cariche di vento
cerca voci e suoni dell’anima
dentro il canto del fiume
o la voce di un bambino
cerca i profumi dell’umano
ineluttabile che gioisce
suda, soffre e fluisce
cerca i colori del ciclico
accadere così uguale
così nuovo  e rassicurante
cerca te stessa lontano
dal chiasso e dalla velocità
qualunque cosa cerchi
anche se tu non la trovi,
tornerai più ricca dentro
e un po’  ti invidieremo.


Rio
Dietro la foglia
l’erba sottile
sotto le pietre
del muro antico,
fra le radici,
nervose, d’Ontano
gorgheggia, s’insinua,
rimbalza, saltella,
corre e rincorre
pare che rida,
Rio delle brezze
verso il lago.


e in dialetto

Al lobièt del Sòc

El ciòch lesér dei tò söpèi,
che piàno i pèscia come chèi
d’en réatì, d’ena bàrbèla
söi bàlòcc à la sàntèla,
la càlabróza che fa ‘l scròch
sö ‘na foia, sura ’n bròch…
Nel me có lesér, lesér,
no go óter che ‘n pensér
‘l cör che nó ‘l se quiéta.
Se nó ‘l fös per chèla arièta
profumàda fina e sèca
come ‘l fiàt de la tò bóca
sarès pèrs come giü ciòch
postàt ché, al lobièt del Sòch.




TRADUZIONE

AL BALCONE DEL CEPPO  (“Sòch” è anche il nome della collina da cui prende il nome Soprazocco)

Il tocco leggero dei tuoi zoccoli,
che piano calpestano come quelli
di uno scricciolo, di una farfalla,
sui sassi all’edicola,
la brinata che scricchiola
su una foglia, su un rametto…
nella mia testa, leggero, leggero,
non ho altro che un pensiero
il cuore che non si quieta.
Se non fosse per questa arietta
profumata, fine e secca
come il fiato della tua bocca,
sarei perso come un ubriaco,
qui, al balcone del Ceppo.

EL MULI’ RESÜSITÀT

Quànt’èl Pierino el dèrf el canàl
le pàle le mica, le tira sö l’àqua
col ciòc del mànester nel tòcio che bói,
la röda la strica l’asàl che scaìna,
de détèr se sènt pulège che sübia
la préda che gira la fà tremà i mür
la màsna ‘n continuo la màsna, la màsna…
Ensomiàë, che ze’ndré, ‘l mulì che laùràa
come da gnàri, l’istat, za madüra
préde brüzàde dal sul, ‘na càna de ort
dù métèr de bàa, le stopài  che galèsa
èl gira ndré aànti tra mórta e curida
speràndo che bóche n’àola strinàda…
Me dèsce, ghé pènse, ‘l mulì l’è là a tòc
le röde spacàde da l’àqua, dal zél
le gira gnà piö, ghè mia piö l’asàl
spàrida la màsna, dat zó ‘nfina ‘l cóp
ghè sul che le surghe che fa ‘l carneàl.
Ma ‘n dé nó a Gàart e  dal Có del Burg
có la cua de l’öcc me vède stèrlüser
vergota de ram de là del Nàële,
de là amó del Cés… Madóna! ‘l mulì!
Me ferme lé ‘n bànda, e àrde piö bé:
l’è pròpe ‘l mulì, forse i la giüsta
i la mèt töt à pòst… föss véra, che bèl!
Sarà, me contènte de póc e de mìa,
ma per chèi come mé, che gà vist ‘sparì,
bàtit zó a ciapèi, èl paés come l’ia
vèrgot che se sàlva, mulì, cap o mucc,
èl  dà la spérànsa o l' ilusiù pia
che reste vergot de lasàga ai niucc.





TRADUZIONE


IL MULINO RESUSCITATO

Quando Pierino apre il canale
le pale intingono, sollevano l’acqua
col rumore del mestolo nell’umido che bolle,
la ruota strizza l’assale che cigola,
dentro si sentono pulegge che fischiano
la pietra che gira fa tremare i muri
la macina continuamente macina, macina…

Sognavo, tempo fa, il mulino che lavorava
come da ragazzi, l’estate già matura
pietre bruciate dal sole , una canna di orto
due metri di bava, il tappo che galleggia
gira indietro e avanti tra la morta e la corrente
sperando che abbocchi un’alborella striminzita...
Mi  sveglio, ci penso, il mulino è là a pezzi
le ruote spaccate dall’acqua, dal gelo
non girano più, non c’è più l’assale
sparita la macina, caduto perfino il tetto
ci sono soltanto i ratti che fanno il carnevale.

Ma un giorno vado a Gavardo e da Capoborgo
con la coda dell’occhio vedo brillare
qualcosa di rame, oltre il Naviglio
ancora oltre il Chiese…. Madonna!  Il mulino!
Mi fermo lì, da parte e guardo meglio:
è proprio il mulino, forse lo riparano
lo mettono tutto a posto, fosse vero, che bello!
Sarà, mi accontento di poco e di niente,
ma per quelli come me che han visto sparire,
buttato giù a pezzi, il paese com’era,
qualcosa che si salva, mulino, campi o boschi
dà la speranza, o la illusione pia
che resti qualcosa da lasciare ai nipoti.

mercoledì 27 settembre 2017

LEM.3
I LEM (Living experience music) sono una band che si è costituita nel gennaio del 1970. Sono alla loro terza formazione, punto tre (LEM.3), appunto. Dopo l'interruzione del 1972, la seconda formazione con l'ingresso di Alberto alla chitarra, nella prima decade degli anni 2000 e infine la nuova formazione dopo la scomparsa del caro amico Gigi, storico bassista, sostituito da Gino.
Domenica 7 maggio dalle ore 16.30, sul palco del Teatro Salone Pio XI di Gavardo,
I LEM.3 (terza riedizione della storica band gavardese) si sono esibiti in uno spettacolo nel quale hanno coinvolto anche John Comini. Il noto regista e autore teatrale sarà in veste di attore e presentatore.
Il repertorio spazia dai Beatles a Zucchero, passando per CCR, New Trolls, Carlos Santana e tanti altri protagonisti delle scene musicali italiane e internazionali degli ultimi 50 anni.
Leader musicale del gruppo è Santino Maioli, in tandem con l’altro chitarrista  Alberto Comaglio. Completano la formazione Franco Marini alla chitarra acustica, Gino Toffolo al basso, Mario Vezzoni alla batteria e infine Maurizio (Mauro) Abastanotti al sax alto, che alterna la sua voce con quella di Alberto e Santino.
I LEM.3 si ripresentano al pubblico a sostegno delle iniziative della onlus Rio de Oro Gavardo per i bambini del Saharawi, associazione che ospita e assiste i bambini disabili di quel popolo senza terra.

Le iniziative benefiche continueranno nel corso dell'autunno. Il prossimo appuntamento è previsto per il 21 ottobre 2017 a Caino (BS).

FRAMMENTI DI STORIA DEL GRUPPO
CAP.1
Avevano tante idee per la testa e nemmeno un soldo in tasca. La paghetta durava dal sabato al martedì, dopo di che  si andava in riserva; nelle settimane virtuose qualche spicciolo arrivava fino al giovedì, poi più niente … Miscela razionata nel motorino, sigarette sempre più scadenti e al bar solo un caffè, ma infine tornava il sabato ed era di nuovo paghetta.
In queste condizioni pensare di acquistare gli amplificatori e un impianto voce era un aspirazione da visionari incoscienti. Qualcuno, però, ricordò che Don Erminio era stato designato alla grande responsabilità di parroco nella fiorente città di Clibbio, frazione di Vobarno. Questo sacerdote, sant’uomo, mentre si trovava a Gavardo si era dedicato all’animazione dei ragazzi, fondando un gruppo scout e stimolando la nascita di un gruppo musicale. Ora che si era trasferito, dov’erano finiti gli impianti di amplificazione?
Detto, fatto. Una domenica mattina i nostri, inforcati i motorini e gli scooter freschi di rifornimento si recarono a Clibbio. Don Erminio li accolse e mostrò loro quanto gli era rimasto: un paio di amplificatori e un impianto-voci. Si offrì di metterli a loro disposizione e infatti le prove per un paio di mesi si svolsero proprio lì, in una delle stanze del neo-parroco. Gli abitanti della ridente cittadina furono tanto entusiasti che suggerirono al parroco di invitare i musicisti a trasferirsi in una location più adatta al loro estro artistico, ma soprattutto al livello dei decibel che uscivano dalle finestre della canonica.
Nel comunicare la necessità di tornare al loro paese d’origine, Don Erminio propose ai ragazzi del gruppo di acquistare le apparecchiature che avevano utilizzato. Ora, chiamare amplificatori e impianto-voci quei residuati degli anni ‘50 richiedeva tutta la fantasia e l’entusiasmo di quei sedicenni e il sant’uomo, che li conosceva bene, non vedeva l’ora di disfarsene e ricavare qualche soldo. Concluso l’accordo di un acquisto rateale, non rimaneva che il trascurabile problema di procurarsi i soldi per pagare le rate.
Furono considerate tutte le ipotesi, anche le più fantasiose, ma alla fine la maggioranza decise per la raccolta della carta, che a quei tempi rendeva abbastanza bene.
La Storia dovrà tacere sulle scadenze  e sui frazionamenti delle rate, ma dovrà prendere atto che i nostri eroi riuscirono a pagare quegli strumenti. Per essere precisi questo avvenne poco prima della loro ingloriosa fine, tra valvole bruciate, potenziometri arrugginiti e cadute rovinose durante i trasporti.

CAP. 2
Venne l’ora fatidica del primo ingaggio: un bar di Villanuova gli chiese di esibirsi sulla terrazza del bar che dava direttamente sulla strada, allora statale. L’emozione era alle stelle, quanto le ansie per il repertorio ancora limitato a sei canzoni.
Il primo problema era il trasporto degli amplificatori, abbastanza ingombranti e pesanti.
I gruppi musicali seri e importanti, rock o di liscio che fossero, parliamo del 1970, avevano un furgone Volswagen o un Ford transit, un mito per noi. Loro si sarebberoo accontentati anche di un vecchio Alfa Romeo o di un qualsiasi altro mezzo di trasporto coperto.
Due ostacoli insormontabili si paravano, tuttavia, davanti : la mancanza di mezzi economici e l’età. Nessuno di loro, infatti, aveva ancora compiuto i diciotto anni necessari per la patente di guida.
Come arrivare a Villanuova con la seppur ridotta dotazione?
Non so a chi venne l’idea. Passavano spesso dall’incrocio tra via Quarena e via Sormani, perché nello scantinato di una della case popolari situate in quest’ultima, avevano ricavato una specie di taverna dove organizzavano festicciole sulle quali avrei molto da dire. Su quell’incrocio, addossato alla fontanella pubblica, c’era un chiosco, dove il vecchio Ciücì, nella bella stagione, vendeva angurie e bibite, ma all'occorrenza faceva comparire da sotto il banco una bottiglia di vino o di grappa. Dal lato opposto a quello della fontana era parcheggiata l’Ape che il vecchio usava per i rifornimenti. Decisero, dunque di chiedere al figlio del Ciücì, dietro adeguato compenso, il noleggio del potente(?!?) treruote. Il ragazzo avrebbe fatto ad autista.
I signori del Club dei Bigetti videro arrivare davanti al loro bar, nel pomeriggio di quel giorno d’estate, un’ Ape, carica di strumenti e con al seguito ciclomotori e scooter,  pavoneggiarsi come una regina d’insetti con fuchi al seguito.

CAP. 3
E venne il tempo delle vacanze: tutti al mare al mostrar le chiappe chiare!
Dopo un anno e mezzo la motorizzazione del gruppo aveva visto notevoli progressi. La maggior parte dei ragazzi aveva conseguito la patente di guida e se l’auto restava un miraggio ci si era dotati di motociclette e scooter a due posti, non di prima vernice, naturalmente! Il parco motoristico era composto da due Lambrette, una modello 1953, e una del ’55, entrambe a tre marce e una moto Morini 150 con manubrio a bracci lunghi, tipo Easy Rider, un vero gioiello.
Con tali mezzi si dovevano percorrere i circa 300 km che separavano il paese natio dalla mitica Rimini. Due per ogni moto con bagagli, pinne, materassini e una tenda a casetta da smembrare, suddividendo il carico di teli e picchetti. Non mancava una chitarra, la più scassata in dotazione, tale da poter subire eventuali cadute e traumi senza ingenerare le isteriche reazioni del chitarrista.
Partenza di notte, con tanta adrenalina nel sangue da aver l’impressione di salire su un biplano in decollo, non su un catorcio a due ruote.
Tempo splendido, notte di stelle con una leggera brezza di monte  alla partenza.
Viaaaa! Sulle strade diritte o tortuose, strette o larghe, asfaltate di fresco o piene di buche, tra frutteti, campi di grano e di ortaggi, canali di irrigazione e fossi maleodoranti, grandi covoni di fieno o enormi mucchi di letame.
Viaaaa! Attraverso città sonnacchiose con le narici piene degli odori di asfalto, di scarichi di motori, aromi di cibo e birra fuggiti dalle porte aperte dei locali insonni, tra palazzi e chiese, condomini grigi e distributori di benzina, semafori lampeggianti e rare insegne luminose colorate, e poi paesi piccoli e grandi, case con le finestre aperte per l’afa, che lasciavano intravedere abitanti in abiti succinti e perfino una coppia che faceva l’amore.

CAP. 4
Ho scritto una canzone trent’anni dopo:
Come la strada tra qui e Rimini
Odore di canali e d’asfalto
Strade neglette di notte
Mentre il motore non fa che cantare
Una nota sola in armonia
Con i pensieri che corron verso il mare
E’ già sale il sapore del vento
Come la strada tra qui e Rimini
Quei due alla finestra cosa fanno
Credevano d’essere soli
Mentre noi sotto a bere qualcosa
Se si sono accorti di noi
Se han spento la luce che male c’è
È già sale il sapore
L’aria che sferza il viso le mani
frizzante pungente agita parole
Preannuncia quel sole che sorge dal mare
Arrivare forse non è importante
Perché la mente è già in corsa
Come la strada tra qui e Rimini
Luci di bar sudore e tabacco
Odor di frenate sesso in offerta
Premi piano, sì lo so non forzare
Chè ti fa gola annusar le avventure
Ma c’è altro che ci aspetta là
Ed è già sale il sapore del vento
Arrivare forse non è importante
Perchè la mente è già in corsa
Tra Rimini e qui

Infine siamo arrivati, a Rimini. Era Agosto e trovare un posto in campeggio non fu impresa semplice. Provammo a trovare ospitalità in tutte le strutture della famosa cittadina della movida adriatica. Trovammo posto, in extremis, in un campeggio male attrezzato al limite sud di Miramare, poco distante dal confine con Riccione. Cosa ci aspettava là? Una vita sregolata senza orari e senza limiti, tranne quelli dettati dalla condivisione e dalle scarse risorse finanziarie. Conoscendo le nostre abitudini, che l’anno prima, nella spedizione in Provenza,  ci avevano quasi portato alla fame per esaurimento pecunia, accantonammo subito i soldi sufficienti a fare il pieno per il ritorno.
Fu subito festa, ma verso la fine della settimana, quando le finanze cominciavano già a segnare la riserva, a qualcuno venne la brillante idea di lanciare una sfida a pocker. I quattro giocatori rimasero la notte intera e il giorno seguente sotto un sole implacabile a confrontare full, scale e pocker sotto la tenda. Alla fine il vincitore, dopo aver svuotato le tasche agli altri, annunciò di prendersi una pausa e di andare a trovare un’amica a Cattolica.
Tornò dopo due giorni, con l’aria soddisfatta e appagata, mostrando orgoglioso il polso adornato da un orologio nuovo di zecca. Aveva investito gran parte dei soldi vinti nell’acquisto di un dorato Omega che si rivelò, naturalmente, un tarocco, ‘na sola, direbbero i romani.
Non fu acclamato. I rimbrotti durarono, anzi, per parecchio tempo anche dopo il ritorno.

CAP.5
Sempre a proposito di trasporti.
Eravamo in pochi ad avere un motorino e le multe per il trasporto di un secondo passeggero ci avevano dissuaso dal trasportare gli appiedati.
Fu per questo che quando fummo ingaggiati dalla balera/discoteca “Alla Pesa” di Polpenazze il gestore si assunse l’onere di trasportare alcuni di noi oltre agli strumenti.
Il viaggio di andata era tranquillo. Il ritorno era un po’ ansiogeno.
Arturo, che Dio l’abbia in gloria, soffriva la sete in modo organico. Per questo, prima di mezzogiorno calmava l’arsura con una decina di Aperitivi, discendendo poi verso sera con una serie di terapeutiche bevute di vari liquidi alcolici.
Quando verso la mezzanotte si trattava di trasportare musici e strumenti, il volenteroso aveva ormai raggiunto un tasso etilico nel sangue pari a quello dei globuli rossi, bianchi, piastrine e plasma compreso. A vederlo così, cimbo, col passo un po’ incerto e gli occhi placidi, quelli destinati a salire sulla sua 1100 famigliare andarono un po’ in ansia. Il culmine fu raggiunto una sera di tardo novembre, quando, inaspettatamente, sulla Valtenesi calò una fitta nebbia. I tre musici destinati si avviarono dietro l’autista dondolante verso la macchina, con un peso sul cuore. Egli li rassicurò di aver guidato in ben altre  condizioni di visibilità e appena avviata la vettura, abbassò il finestrino e si sporse con la testa e un braccio, manovrando volante e leva del cambio con l’altro arto. Per fortuna il viaggio si concluse senza danni e arrivarono alle Fornaci, dove era la nostra stanza per le prove. Eccezion fatta, forse, per qualche movimento intestinale.